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Elena

Regia di Petra Costa vedi scheda film

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La recensione su Elena

di spopola
8 stelle

Il dolore torna alla memoria, ritorna nell’acqua, sento la catarsi dare senso al mio, al nostro viaggio. Cambiare, maturare fra amore e delusione ma sentirsi ancora abbracciata dalla perdita. (Petra Costa).

 

Il pensiero della Costa riportato in apertura, è a mio avviso “a suo modo” la perfetta sintesi di questa sua toccante opera prima privata e personale, con la quale la regista prova a dare una risposta (prima di tutto a se stessa) a questa dolente ricerca di un senso e di un perché che è al tempo stesso anche un intenso e appassionate recupero di un passato parzialmente smarrito e tutto da riconquistare.

Una pellicola di intima sostanza dunque, tanto è profonda e persistente la parte autobiografica di questo mosaico frammentato che porta alla luce una storia non solo piena di straordinaria emotività, ma anche bella e potente nella composizione formale del racconto,  punteggiata da lettere, ricerche d’archivio, filmati e foto (il tutto magistralmente sorretto e amplificato dalla voce della stessa Costa che è molto di più di un amorfo complemento esplicativo, proprio per la capacità che ha di evocare con lucida partecipazione, il dramma che vi si cela dietro).

Io l’ho trovato un lavoro davvero eccellente, di quelli che di solito vengono definiti come “realizzati con il cuore oltre che con il cervello”. Devo infatti ammettere che raramente un film-documentario come questo (ma credo che  si tratti di una definizione più che altro di comodo per cercare di inquadrare meglio una pellicola difficilmente classificabile) ha fluttuato durante e dopo la visione dentro alla mia mente con tanta persistenza, aumentando concretamente il suo valore proprio alla distanza, trattandosi di un’opera che necessita a mio avviso di una riflessione davvero molto ponderata, indispensabile per coglierne tutti gli aspetti e le connessioni.

Avvolgente e “poeticamente ribelle” (Maurizio De Rienzo) per costruzione e flusso emotivo, costantemente sospeso com’è fra i toni del reale e quelli delle emozioni, il film ha al suo interno un’ironia intrisa di una carica di catartica tragicità che lo rende dissimile da ogni altra cosa, un non secondario valore aggiunto insieme a un sorprendente, inusuale “azzardo narrativo” della  messa in scena (non mi vengono altri termini per definire la cosa, e mi auguro che sia sufficientemente chiaro ciò che intendo dire) che lo fa lievitare fino a farlo diventare qualcosa di più di un semplice “documento”: pur rimanendo sempre compreso nell’impenetrabile alveo che privilegia il cuore della storia, il film è infatti inframmezzato da frequenti sequenze che potremmo definire di “metafora mitologica” e di altre che invece ci rimandano alla dimensione del sogno (comunque realizzate sempre con una forma poco immaginifica fortemente ancorata al “reale”) che lo proiettano in tutt’altra direzione.

 

Il film è un personale tentativo della regista (per altro effettivo e indubbio – nel senso che è stato proprio il percorso che ha inteso fare in prima persona) di ritrovare e ricongiungersi a sua sorella Elena di ben tredici anni maggiore di età che dal Brasile non ancora democratico, all’età di 20 anni (e nonostante il parere contrario di sua madre anch’essa con un passato artistico alle spalle) decise di abbandonare il suo paese e la sua famiglia per andare a New York per danzare, recitare e… vivere la sua vita… con l’intento di rendere reali i suoi sogni di carismatica  e tormentata artista che nella sua patria non riuscivano a concretizzarsi.

Il legane di Petra con la sorella, nonostante la differenza d’età, è stato sempre molto profondo, né è rimasto affievolito dalla lontananza, ed è proprio partendo dal ricordo delle sue attenzioni e dei suoi caldi sorrisi che nasce in lei prepotente questa voglia di partire alla  ricerca di un affetto e di affrontare un viaggio verso la Grande Mela utilizzando i pochi elementi conoscitivi che sono rimasti ancora a sua disposizione..

Che fine ha fatto Elena? È questa la domanda che ricorre spesso (ma non è la sola, poiché subito dopo viene quella di chiedersi – anche da parte dello spettatore – quali sono le ragioni che fanno dire alla genitrice che se lei vuole, può andare in qualunque posto tranne che a New York e che può studiare tutto tranne che il teatro, lasciando intravedere qualche oscuro mistero che nessuno intende svelare).

Petra però non si lascia intimorire (oltre che regista anche protagonista della storia come "occhio" che guarda e scruta le cose). Intende infatti  agire seguendo d’impulso il suo sentire, per proseguire con indomita baldanza sulla stessa strada che hanno prima di lei percorso la madre e la sorella. Rifiutando i consigli e le esortazioni, parte così in cerca delle residue tracce di Elena verso la quale ha un evidente debito di riconoscenza perché in un certo senso è stata proprio lei ad educarla, aiutandola a stimolarle il versante artistico della sua personalità. Così con la sua cinepresa filma e filma all’infinito nel suo viaggio di avvicinamento alla Grande Mela e in questo suo incessante impegno ricostruttivo fatto di inediti passaggi che le forniscono nuove preziose indicazioni per il suo obiettivo, arriva a registrare oltre 300 ore di girato pieno di incontri  e di sorprese dalle quale distillerà poi, comprimendolo negli 80’ complessivi che è la durata effettiva della sua “fatica” filmica, questo suo appassionante viaggio fisico e interiore che le consentirà di scoprire in progressione via via che cadono chiusure ed omissioni, i tasselli mancanti necessari a ricomporre il mosaico di quella  riscoperta parentale che sta cercando di concludere con assoluta dedizione.

Il lavoro è di quelli in progress e in costante mutazione con i sui sviluppi che non sono mai quelli di causa-effetto, e che mirano invece e  principalmente, a mettere in evidenza i segmenti più oscuri (intesi come quelli ai quali è più difficile – o addirittura impossibile – dare delle risposte certe) che lasciano molti sospesi irrisolti come accade sempre nella vita reale, così che alla fine ci rendiamo conto proprio come spettatori, che sono decisamente più corpose le domande rispetto alle certezze e che restano in netta prevalenza  i dubbi sugli esiti (ed è proprio questo dualismo parzialmente irrisolto che richiede quella  riconsiderazione riflessiva a cui accennavo prima).

Per concludere, il film è una sofferta lettera d’amore indirizzata a un’anima perduta, una specie di cupo dissolvi in cui, prima ancora della Grande Mela dove molto accade, è il luogo d’origine delle due donne (tre per la verità, esattamente quanto sono qui le figure femminili di primo piano, visto che anche quella della madre è basilare nella costruzione) ad essere essenziale per rielaborare e riconsiderare nella giusta dimensione, quei ricordi, quei volti e quegli scenari dissotterrati e riportati alla luce con tanta maestria e fervore, da una  Costa in costante equilibrio fra “passione” e “disperazione”.

Il dolore torna alla memoria, ritorna nell’acqua, sento la catarsi dare senso al mio, al nostro viaggio.

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