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Nelle pieghe della carne

Regia di Sergio Bergonzelli vedi scheda film

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La recensione su Nelle pieghe della carne

di moonlightrosso
2 stelle

Esempio di cinema "multigenere": giallo, horror, erotico, dramma psicologico, azione, poliziesco e davvero chi più ne ha più ne metta.

Abbandonato il piratesco e lo spaghetto western, dismessi i panni di "sessuologo dell'ultima ora" con le sue pseudo-inchieste "Silvia e l'amore" (1968) e "Le dieci meraviglie dell'amore" (1969) e non ancora approdato al becerume di certa sua commedia erotica o al desolante squallore di certe sue cooproduzioni in terra greco-turca, il Bergonzelli gioca la carta del cinema "multi-genere", sfruttando, al peggio, un soggetto scritto con la mano sinistra da Mario Caiano e sceneggiato con i piedi sinistri da Fabio De Agostini e dallo stesso regista.

Esordendo con un pensiero attribuito nientepopodimenoche a Sigmund Freud (sara!), il film racconta una confusa vicenda ambientata all'interno di una villa sul mare, teatro di orrori, omicidi e nefandezze di vario genere. Qui abitano Falaise, figlia del padrone di casa Andrè creduto morto; la governante Lucille e il nipote debosciato di quest'ultima. Un oscuro passato da nascondere legato alle gesta di una gang non meglio identificata dalla sgangherata sceneggiatura, porterà i tre ad assassinare nei modi più cruenti e bizzarri tutti coloro che si avvicinano alla villa. Ne faranno le spese il sedicente cugino Michèl, accompagnato dal suo pastore tedesco; un fascinoso amico venuto a cercarlo e non ultimo il ricattatore evaso dal carcere Pascal Goriot, tutti in qualche modo legati alla fantomatica gang.

Senza nulla anticipare su un finale di inaudita assurdità, il Bergonzelli con inconfondibile imperizia e personalissima goffaggine, affronta il giallo all'italiana, che in quegli anni iniziava a prendere piede, commistionandolo, come in un cocktail male amalgamato, con i generi più disparati: l'horror, l'erotico, il dramma psicologico, l'azione, il poliziesco e davvero chi più ne ha più ne metta.

Nella pretenziosa velleità di suscitare profonde riflessioni ed elucubrazioni intellettualistiche, manco fosse Ingmar Bergman, e considerando noi poveri spettatori medi alla stregua di trogloditi, il compianto cineasta piemontese fa assurgere a verità assolute quel po' di psicanalisi da bar e di sociologia da "coiffeur pour dames", il tutto nel quadro di un'autorialità intrisa di frasi fatte trite e ritrite nonchè di luoghi comuni puerili e irritanti.

Spostandoci sul lato di ciò che avrebbe dovuto essere la pura evasione, ne deriva, quale inevitabile corollario, che questa non possa far altro che coincidere in momenti di esilarante comicità involontaria, corroborati da penosi e poveristici effetti speciali.

Fulgida espressione di un dilettantismo senza pari, il film procede fra strangolamenti di cani che si addormentano facendo le feste, decapitazioni con teste di cartapesta che rotolano sul pavimento e altre teste che, nel far bella mostra di sè in risibili saponificazioni, acquisiscono dimensioni più che doppie rispetto al normale.

Quanto ai protagonisti, se Eleonora Rossi Drago, nel ruolo di Lucille, non poteva concludere la sua carriera in maniera più ingloriosa, Anna Maria Pierangeli, nella parte di Falaise, appare provata dalla depressione e dai barbiturici che la porteranno nel giro di un anno al suicidio.

Tra i comprimari, a parte i soliti idioti dalle risate sconclusionate tanto cari al Bergonzelli (vedasi il cugino Andrè), piace menzionare il baffuto Fernando Sancho nella parte del ricattatore Goriot. Il pacioso caratterista spagnolo ci ripropone quel personaggio manesco e sbruffone da capo-bandito messicano dei tanti westerns all'italiana dei quali è stata storica presenza. Qui si rende protagonista di un'insolita quanto ridicola morte nella vasca da bagno mentre canticchia un sublime "popporoppopo", avvelenato da due pastiglie di acido cianidrico lanciate da un orologio a cucù e che si sciolgono nell'acqua. Il tutto spiato dal debosciato nipote di Lucille con atteggiamenti più pierineschi che inquietanti. Curiosa la partecipazione di Luciano Catenacci, futuro abituale "villain" dei poliziotteschi dei settanta (qui anche produttore esecutivo), nella parte di Antoine, l'antico amante di Lucille, rievocato negli incubi della fragile Falaise.

Ancora legato alla sintassi del cinema tradizionale e non ancora avvezzo a utilizzare a sproposito quelle riprese sghembe o quelle immagini duplicate e roteanti che caratterizzeranno il suo cinema degli anni a venire, il Bergonzelli non tradisce un certo gusto per le inquadrature, esaltate dall'ottima fotografia di Mario Pacheco e da movimenti di macchina talora virtuosi, segno evidente che, se avesse tenuto maggiormente i piedi per terra, il nostro presuntuoso e umorale cineasta avrebbe potuto conseguire ben più apprezzabili risultati.

Un montaggio strampalato alla "nouvelle vague de noartri", curato dallo stesso regista, con raccordi temporali talora stranianti per non dire incomprensibili, ci regala in flashback sequenze piuttosto forti (almeno per l'epoca), soprattutto quando Lucille ricorda i suoi trascorsi adolescenziali in un campo di concentramento nazista.

Completa il tutto una bruttissima colonna sonora da horror spagnolo di terza lega indegna persino del peggior Jess Franco.

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