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Cloud Atlas

Regia di Tom Tykwer, Andy Wachowski, Lana Wachowski vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su Cloud Atlas

di alan smithee
4 stelle

Il romanzo frenetico e accattivante di David Mitchell “L’atlante delle nuvole” dal quale è tratto il film omonimo che segna il ritorno dei fratelli (….e sorella visto il singolare ripensamento dell’ormai definitivamente per tutti “Lana”) Wachowski + il versatile, energico e un po’ furbetto Tykwer, probabilmente (dico così non avendo fino ad ora avuto il piacere di affrontare tale lettura) riesce a districarsi bene tra le sei complesse vicende che si intersecano nella fitta e convulsa trama che caratterizza la vicenda.

E certo bisogna dare atto ai tre registi che mettere in scena una tale complessità di eventi narrativi apparentemente così diversi uno dall’altro costituiva già dagli intenti un’impresa titanica, cruciale, e per nulla scontata, quasi quanto quella - non posso fare a meno di pensare forse un po’ maliziosamente - di cambiare radicalmente sesso (per restare vicini ad una tematica che ha coinvolto, come ormai quasi tutti sanno, uno dei tre nostri “eroi”).

La scelta (discutibile a mio giudizio) adottata dai tre dinamici cineasti è stata quella di girare ognuno un paio di episodi a testa, procedendo in sede di montaggio ad un intervallarsi frenetico di tutte le vicende, che trovano ognuna un proprio contesto temporale differente nell’arco di ben cinquecento anni: a partire dal 1849 su un galeone in mare aperto durante l’epoca della schiavitù per raccontare nei dettagli il rapporto di reciproco aiuto che si instaura tra un avvocato e uno schiavo clandestino, per passare alla Scozia degli anni Trenta con un giovane ambizioso musicista in cerca di fama, e quindi alle spionistiche scottanti inchieste a sfondo ecologico di una giornalista nel 1973, arrivando ad oggi con le vicende comico/rocambolesche di un editore improvvisamente portato alla ribalta da un folle atto di violenza di un suo autore; passando poi ad un futuro tutto sommato prossimo dell’episodio incentrato sul triste destino di un sensibile clone-femmina sfruttato e represso nel 2144 da una società immonda e schiavista, fino ad arrivare all’ultimo in ordine cronologico, quello ambientato tra le lussureggianti foreste hawayane di un mondo regredito e devastato da una catastrofe intorno al 2300. Il risultato finale risulta estremamente difficile da gestire, anche mentalmente; da digerire, assimilare, comprendere a fondo come meriterebbe ogni storia senza invece perdersi in sforzi inutili e confusioni di ruoli e personaggi: e ciò a mio avviso si sarebbe facilmente potuto evitare se l’abbondante mastodontica materia fosse stata organizzata con più rispetto e coerenza per le capacità percettive dello spettatore medio, che mai come in questo caso rimpiange la più comune linearità dell’incedere narrativo più classico che sempre più spesso si abbandona anche solo al fine di rendersi più accattivanti e tosti.

Al contrario questo montaggio eccessivamente concitato, che vuole giustificarsi con la presenza delle cosiddette "porte temporali" - che tuttavia per me spettatore poco brillante sono solo occasioni per non comprenderle e sbatterci la faccia clamorosamente - e che vede alternarsi e sbriciolarsi più episodi anche solo nel giro di pochi secondi, risulta in poco tempo davvero sfiancante anche – ritengo - per lo spettatore più favorevolmente disposto o acuto (categoria alla quale purtroppo non appartengo).

Infatti mentre all’inizio si fatica molto a raccapezzarsi, violentati come si è da mille intrecci complicanti per lo più dalla presenza dei medesimi attori - pur sconvolti ogni volta da un make-up e da effetti speciali visivi a volte sino inquietanti - col proseguire in questo ritmo vorticoso e quasi “random” con cui si avvicendano i vari episodi, indolentemente interrotti nei punti ritenuti giusti in un tentativo disperato e maldestro di ottenere suspence e ritmo, col passare dei minuti (o delle ore) la pellicola risulta davvero faticosa, complicata e confusionaria: un insalata russa di gusti e generi che mescola in modo avventato sapori in alcuni casi anche fini e gradevoli (l’episodio del giovane musicista Ben Whishaw che viene umiliato dal vecchio celebre compositore fino al suicidio, quello di Halle Berry giornalista alle prese con una inchiesta scottante sul nucleare e quello del triste melanconico clone nipponico che si ribella e prende parte alla rivoluzione, non sarebbero affatto male, se affrontati con una tradizionale sana continuità narrativa.

Pure qualche attore eccelle, il citato Ben Whishaw e Jim Broadbent, ottimo al pari di ogni sua altra frequentazione cinematografica, su tutti; ma alla fine il film non può che farsi ricordare più che altro per la sua estenuante lunghezza, ridondanza e complessità narrativa. Sentimenti e caratteristiche non certo rassicuranti per un prodottoambizioso di  tre registi ambiziosissimi; che in sostanza peccano di superbia mancando di rispetto allo spettatore, ceffando clamorosamente nell’assemblare quasi a casaccio la complessa materia del girato in un caotico sconclusionato buffet dai mille colori e gusti che finiscono per risultare troppo prresto inesorabilmente insapori.

 

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