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Cappuccetto rosso sangue

Regia di Catherine Hardwicke vedi scheda film

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La recensione su Cappuccetto rosso sangue

di M Valdemar
2 stelle

Bardata come La maschera della Morte Rossa, Valerie/Cappuccetto Rosso semina, anziché peste portatrice di distruzione, noia. Noia mortale.
Pensato certamente per teenager che hanno eretto a loro culto cinematografico perle quali la saga di Twilight (medesima regista) e altre amenità simili, Cappuccetto Rosso Sangue è insulso e insultante ogni oltre umana concezione, oltre ogni normale possibilità di sopportazione. Le intenzioni di un’operazione di questa specie (tra i produttori figura pure Leonardo Di Caprio) sono chiare e cristalline, come gli occhi, i grandi occhi liquidi e vitrei della protagonista Amanda Seyfried: un po’ di azione, fantasy, patemi amorosi adolescenziali, un cast fatto di pseudoattori modelli, una storiella che chiunque conosce, mistero, “romanticismo” diffuso (a caso) e il gioco (cioè il filmetto) è fatto; ragazze e ragazzi apprezzeranno. Vedremo in che misura.
La celeberrima favola da cui trae spunto è naturalmente solo un pretesto, diverse sono le implicazioni con altri temi già sfruttati, usurati, sia su carta che sullo schermo.
Valerie, una bella fanciulla, abita in un villaggio isolato tra i boschi, che da due generazioni ha a che fare con un feroce lupo mannaro col quale ha stretto un patto: alla bestia vengono offerti in sacrificio gli animali in vece di esseri umani. La tregua salta quando l’Essere immondo uccide la sorella maggiore di Valerie, la quale, tra l’altro, già soffre per non poter amare il suo uomo, essendo stata promessa ad un altro. Gli abitanti del villaggio, armandosi di coraggio (alimentato dall’euforia deviante dell’alcool) partono alla caccia del lupo mannaro e, pur contando una vittima, credono di averlo ammazzato, ma è solo un semplice lupo grigio. Il prete indigeno, Padre Auguste, chiama in soccorso il grande Padre Solomon, che agli stolti popolani rivela che il lupo mannaro assume sembianze umane, che può quindi essere ognuno di loro ...
Ed è con tale espediente che viene introdotto l’elemento “mistero”, vero leitmotiv del film, ancor più nel momento in cui Valerie ha un incontro ravvicinato col lupo cattivo, che la conosce, le parla, vuole portarla via con sé … chi mai sarà? Il suo bel tenebroso Peter, taglialegna emo dai capelli ingellati? Il promesso sposo Henry? L’amorevole ma sinistra nonna? La madre? Il prete? … Insomma diventa un giallo alla Agatha Christie, tutti paiono colpevoli, ambigui, malevoli; ma chiunque sia dotato di almeno un paio di neuroni funzionanti capisce immediatamente, suvvia …
Un “mistero” senza mistero, banale, riciclato, malriuscito, ridicolo. Come ridicoli sono gli intrighi e intrecci sentimentali, (in)degni del peggior Beautiful. Battute come “se la ami davvero, la devi lasciare stare”, o “Io sono sbagliato per te”, e ancora “è questa la vita che voglio”, sono realmente e incredibilmente pronunciate! Con una tale nonchalance, poi … Ma chi le ha scritte??! E soprattutto, cos’avevano assunto? Qui siamo oltre il ridicolo, siamo nel campo della sfrenata comicità, involontaria, o forse è un colpo di genio che menti semplici mai comprenderanno ...
Ed infatti l’unico modo per “sopravvivere” alla visione di siffatto capolavoro, è astrarsi, estraniarsi, separarsi dal proprio io raziocinante ed intingere quanto l’incredulo schermo c’infligge nell’ottica della parodia, del grottesco, della comicità. Un ghigno soddisfatto ma desideroso di suicidarsi mi ha accompagnato durante la proiezione … immagini deliranti e prepotentemente assurde, scene patetiche, particolari risibili quando non insignificanti, scenografie e costumi pacchiani … E le famose battute della favola (“ma che occhi grandi che hai” … ecc.) vengono pretestuosamente riprese in un sogno di Valerie, che le rivolge all’inquietante nonnina, interpretata dalla malcapitata Julie Christie. Tutti dobbiamo mangiare, è lapalissieno, direbbe Lino Banfi. Considerazione uguale per Gary Oldman, che ha il ruolo del farneticante e spietato Padre Solomon, cacciatore di mostri, che alla Fede preferisce il pugnale. D’argento. Come d’argento sono le sue unghie, che diverranno “accessorio” fondamentale per l’uccisione del mostro. Va beh, è ovvio, ci sono dei “must” da rispettare. Oldman recita (se così si può dire) al minimo sindacale, qualche lampo dettato più dall’inerzia che da ispirazione. E come potrebbe essere altrimenti? Altro volto noto è Virginia Madsen, la madre di Valerie, poche scene. Per fortuna. La protagonista, Amanda Seyfried, è, francamente, irritante, con quello sguardo da pesce lesso e nessun trasporto recitativo. Una bambolona di ceramica. Certo non è aiutata dall’insistente e voluta ricerca del contrasto tra il rosso del vestito e il pallore esangue del viso, con tanti primi piani dedicatile dalla cosiddetta regista, della quale avevo apprezzato Lords of Dogtown, prima cioè che s’insozzasse con la nota pellicola che l’ha resa famosa. Inutile spendersi per trovare qui un qualsiasi senso di regia, che è semplicemente sotto il livello di guardia. Come il montaggio, a tratti amatoriale. Il resto (fotografia, musica) è normale routine per produzioni di questo (de)genere.
Cappuccetto Rosso Sangue risulta così inutile, noioso e nocivo.
Per chiudere, uso una battua detta da Gary Oldman: “Non si sa mai di cosa è capace l’essere umano”. Beh, ad esempio, è “capace” di fare un film come questo.

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