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L'estate di Martino

Regia di Massimo Natale vedi scheda film

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La recensione su L'estate di Martino

di spopola
8 stelle

E’ un interessante esordio L’estate di Martino (anche coraggioso, visti i tempi che corrono e le difficoltà oggettive di una  inadeguata distribuzione che penalizza fortemente ogni voce “fuori dal coro” che mira con tutta evidenza proprio togliendo i necessari spazi di visione, a rendere in pratica “invisibili” queste “operine” stimolanti ma “marginali”  in nome delle ferree e inossidabili “leggi” di un mercato totalmente asservito al capitale  e ormai diventato monopolio o quasi dei multiplex che mirano esclusivamente alla cassetta).

E in effetti poi il film, come era prevedibile, ha circolato poco e male (la continua erosione delle sale “di tradizione” e il ridimensionamento  di un circuito d’essai che a sua volta è a rischio di estinzione o quasi, ha reso ancora più difficoltoso il suo percorso) ed è di conseguenza particolarmente meritorio il “coraggio” di chi  ci ha investito comunque sopra i propri capitali pur conoscendo i grossi rischi a cui andava incontro.

Purtroppo però anche dove è stato programmato, il pubblico (che ha a sua volta oggettive responsabilità  per il  “degrado” culturale delle programmazioni in sala certamente non minori a quelle dei distributori e degli esercenti) ha risposto troppo timidamente, disertando in massa le proiezioni, dando implicitamente ragione a chi sostiene scelte scellerate atte a privilegiare solamente  pellicole  banalmente “commerciali” che per quanto riguarda l’Italia, sono ormai grottescamente orientate verso una visione unilaterale, “barzellettiera” e paratelevisiva della vita, ma che a guardare gli incassi, sembra essere diventata l’unica modalità  davvero “condivisa” ed accettata dai più, e la sola capace di richiamare folle oceaniche (soprattutto per quanto riguarda le categorie “giovani” e “giovanissimi”). 

Davvero un peccato, perché la pellicola realizzata da Massimo Natale, qui come si è visto al suo primo impatto con il grande schermo, ma con alle spalle una già rodata attività maturata nell’ambito della regia teatrale,  è un importante esempio di come sia possibile fare un cinema “poetico” e di forte presa emotiva, concretamente ancorato nella realtà, e perfettamente inserito nelle problematiche politiche degli anni in cui è ambientata la vicenda, anche se le risorse economiche a disposizione sono scarse: l’importante è avere delle idee (che il regista mostra di possedere), una “intelligenza” di rappresentazione personale  che rifugga  (quasi) del tutto dagli stereotipi  consolidati di una modalità di fare cinema ormai sempre più “uguale a se stessa” e uno sguardo che possegga la necessaria delicatezza introspettiva per proporre una visione delle cose se non del tutto innovativa, per lo meno “controcorrente” e soprattutto profondamente “partecipata”.

Il talento, ovviamente ancora un po’ acerbo di Natale, è qui evidente (i risultati sono davvero apprezzabili), e c’è solo da sperare che il sistema gli dia in futuro il necessario credito per  andare avanti nella nuova strada intrapresa, permettendogli  così di sviluppare una carriera corrispondente alle sue ambizioni che le premesse di questo suo primo cimento lasciano intravedere, e darci così conferma delle sue stimolanti qualità artistiche anche in campo cinematografico.

L’impegno di Natale (e della “Movimento film” che si è assunta l’onere di produrre l’opera e di tentare di ritagliarsi qualche piccolo spazio distributivo nella giungla sempre più inaccessibile per le “piccole  marginalità” come questa) ha permesso dunque di far giungere al  naturale traguardo (la sua trasposizione in immagini) e con assoluta dignità, l’ottima sceneggiatura di Giorgio Fabbri che pur avendo meritatamente vinto il premio Solinas del 2007, era rimasta chiusa in un cassetto per tutto questo tempo, e là probabilmente sarebbe restata in barba al prestigioso riconoscimento ricevuto, per essere poi definitivamente dimenticata per le opere di pregio ritenuto poco “commerciabili”.

 

Il film prende le mosse da una data tragica e terribile:  Stazione di Bologna, 2 agosto 1980. E’ in quella fatidica, drammatica giornata così cruciale per la nostra storia, che si collocano le prime scene, per poi andare indietro, in un lungo flashback che è uno dei corpi principali della pellicola, che ci riporta ai giorni successivi al 27 giugno, altra data fatidica indissolubilmente legata nella memoria a un ulteriore ferale evento, quello della strage di Ustica per la quale, come per Bologna, (ma anche per Brescia, l’Italicus o Piazza Fontana ) non ci sono ancora colpevoli o mandanti “certi” per le inaccettabili omissioni politiche di “copertura” che impediscono di far venire a galla la verità, e con le quali dobbiamo purtroppo fare ancora giornalmente i conti in una Italia ormai moralmente allo sbando.

E il peso tremendo di quegli avvenimenti aleggia sinistro sopra e intorno (è alle vittime e ai parenti di quei due eventi delittuosi e ancora irrisolti fra depistaggi e reticenze che coinvolgono le alte sfere del potere fino alle cariche più prestigiose dello stato che il film è dedicato), ma è solo la cornice storica in cui è calato lo struggente racconto di una estate non molto diversa da tante altre, piena di sole, di  amicizie, di innamoramenti e delusioni, che ha al centro della scena il giovane  Martino, colto nel momento “particolare”, speciale e irripetibile,  del fiorire della sua adolescenza puberale.

Martino - ragazzino un po’ malinconico e abbastanza introverso, diverso e in controtendenza rispetto allo spensierato mondo dei suoi coetanei - ha quattordici anni, e si porta sulle fragili spalle tutto il carico feroce delle problematiche connesse con l’età incerta e acerba di un corpo in trasformazione, alle prese con le prime esperienze “reali” anche sentimentali della vita, fra cadute e risalite (come cantava  Battisti), sconfitte e piccole conquiste, e quella è una meravigliosa estate -  la sua - trascorsa in libertà ai margini di una bellissima spiaggia preclusa ai più perché sede di una base americana “off limits” davvero poco amata in quel periodo. Passa il  tempo e le giornate, immerso nei suoi sogni a spiare oltre la rete di recinzione che sembra sbarrargli l’accesso, a guardare il mare – vero protagonista del film – e ad invidiare gli “odiati” soldati  americani della base che fanno surf fra le onde inquiete… quei soldati a loro modo “affascinanti” anche se tanto disprezzati in quei giorni e quei tempi non ancora omologati al perbenismo odierno (si cantava ancora, magari più in sordina di una volta,  Buttiamo a mare le basi americane / cessiamo di fare da spalla agli assassini / giriamo una pagina lunga di vent’anni / andiamo a conquistare la nostra libertà e lo stesso padre di Martino, il patriarca della famiglia dove è cresciuto e si è formato il ragazzo, ha la connotazione storicizzata di  un operaio comunista, sinceramente convinto che la strage di Ustica sia stata provocata da “responsabilità” tutte americane).

Martino nonostante la sua giovane età, è un ragazzo curioso. E’ timido, ma ardito e non ha paura, tanto temerario da aprire un varco in quella rete che lo separa materialmente dal “suo” mare (un gesto che gli permetterà di fare analoga breccia nel cuore del capitano Clark, che lavora nella base e che ravvisa in lui “analogie” con suo figlio lontano, e ne intuisce la sincerità, i grandi sogni, le “immense” speranze tutte protese verso il futuro). Il capitano ammira questo ragazzino a suo modo ribelle che ha avuto il coraggio di essere se stesso sfidando regole e leggi codificate perché “per una volta almeno” vorrebbe poter vedere il tramonto sul mare, impresa oggettivamente impossibile poichè per farlo, per vedere davvero il sole che si inabissa fra le onde quando arriva la sera, sarebbe necessario andare molto più lontano anche da quella spiaggia riconquistata bucando la rete di recinzione, e raggiungere  magari Gallipoli,  sull’altra costa con le sue diverse prospettive di visione.

Martino soffre per le sue prime “inconfessate” pene d’amore (è segretamente innamorato della ragazza di suo fratello, un sentimento che lo fa star male). Trascurato e poco considerato nei suoi bisogni primari, è ansioso di crescere e di affermarsi,  e vuole per questo imparare a surfare come fanno i militari della base. Il surf, lo sport, diventa così una straordinaria metafora della vita, poiché per lui  acquisire quella conoscenza diventa la priorità assoluta da soddisfare  e sembra poter assumere il significato quasi di “un rito” iniziatico per  una  sua definitiva  entrata nell’età adulta e consapevole della vita.

Una spiaggia assolata dunque, il mare e due personaggi che si incontrano  – il ragazzino e  il capitano – all’apparenza così distanti tra loro per età e mentalità, ma che troveranno ciascuno nell’altro, proprio in quel contatto casuale in una  (per altri versi) “insanguinata” estate  di inizio anni ’80, la risposta ai propri personali bisogni, e vedranno così nascere un crescente sentimento di amicizia e di comprensione che  si consolida fino a diventare  “riconoscimento reciproco” dei propri “vuoti  da colmare”. Ed è attraverso il forte, insolito e condiviso rapporto di  un’amicizia quasi “paternale”, che  prende corpo un piccolo percorso di “formazione”  educativa,  che si sviluppa proprio attraverso la mediazione di quelle lezioni di surf che il capitano accetta di impartire al giovane, volonteroso allievo, e che diventa implicitamente un itinerario di crescita anche interiore capace di rendere il ragazzo sempre più  autonomo, e soprattutto consapevolmente cosciente del proprio futuro da adulto, il che non esclude ovviamente la possibilità di poter continuare ancora per un poco a “cullarsi” in quell’amore adolescenziale forse impossibile  ma tanto desiderato, in attesa di aver imparto davvero a non lasciarsi scoraggiare o travolgere dalle avversità dell’esistenza e  ad aver definitivamente superato le proprie insicurezze e i propri fantasmi infantili (e in questo contesto educativo allora, anche la stessa fiaba di Dragut/Martino capace di sfidare le onde e le tempeste, così legata  ai ricordi di un’infanzia che si sta lentamente sgretolando alle proprie spalle, assume il senso di una metafora che riporta in evidenza le presenze comunque prioritarie, a partire da quella preponderante della madre, per quell’adolescenza in avvicinamento costruttivo alla maturità). Il tutto (e questo è uno dei pregi maggiori dell’opera) costruito e rappresentato in una continua alternanza fra passato e presente, fra  la visione più sublimata della favola e quella più cruda della realtà, la tragicità degli eventi “storici” di riferimento e leggerezza della vita di tutti i giorni. E’ semmai la voce fuori campo che sovrappone appunto il racconto della favola alle immagini del film, che a tratti risulta forse un po’ forzata, ma è un perdonabile difetto di “ridondanza declamatoria” che non  inficia minimamente la bellezza di un’opera vivificata dalla bellissima fotografia di Vladan Radovic e dalle prove tutto sommato positive degli attori (in gran parte giovani esordienti) fra i quali spiccano quelle di Treat Williams, Luigi Ciardo, Matilde Maggio e Pietro Masotti.

 

“Per riuscire a stare in piedi sulla tavola servono pazienza e disciplina. Come per tutte le cose difficili anche della vita, per altro”: ecco, potrebbe forse essere racchiusa in questa frase la “lezione” etica impartita dal regista, e anche il senso profondo di una pellicola davvero molto intensa con la quale Natale riesce a rappresentare l’adolescenza cogliendone stati d’animo ed emozioni davvero “genuine” e realisticamente veritiere, in modo cioè  tutt’altro che convenzionale (soprattutto rispetto alle modalità  riproposte nel presente  da un cinema “giovanilistico” omologato e un po’ plastificato convenzionale,  che ce ne forniscono invece una visione stereotipata che non rende assolutamente giustizia alla complessità di un’età di “passaggio” così significativa e intensa ma piena di contraddizioni e di stimoli come poco altre della vita). L’estate di Martino ce la racconta e mostra invece per quella che  davvero è,  con le poliedriche, delicatissime sfaccettature che la connotano e la contraddistinguono fra crudezze ed elegie che la rendono davvero unica e “senza eguali” (potrei citare al riguardo la duttilità “narrativa” della complessa personalità anche psicologica del protagonista  fra “silenzi” ed omissioni che lo rendono capace di nascondere persino al sul “amico” Clark i problemi esistenziali e sentimentali che lo assillano, o le sue “solitudini” interiori che gli permettono comunque di confrontarsi senza timore, incurante della sofferenza,  non solo con l’amore e l’amicizia, ma anche con la perdita e la sconfitta).

Importante anche per il messaggio politico che veicola, la pellicola - come già detto -  punta i riflettori sui i fatti dolorosi di quel passato di “progressivo disorientamento ideologico” racchiuso  fra le rabbiose ribellioni ancora in atto per  quella dolorosissima pagina di storia italiana, e gli echi tutt’altro che spenti  della guerra fredda fra due ideologie contrapposte (da vedere, come “necessario” contributo informativo, anche il fondamentale Il muro di gomma girato nell’ormai lontano 1991 da Marco Risi e interpretato dal compianto Corso Salani) e dovrebbe per lo meno rappresentare una  tappa fondamentale di “conoscenza”  da divulgare nelle scuole, se avessimo un Ministero dell’Istruzione – o come cavolo si chiama adesso – degno di tale nome.

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