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Il maestro di Vigevano

Regia di Elio Petri vedi scheda film

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La recensione su Il maestro di Vigevano

di lamettrie
8 stelle

Una bella tragedia. Che narra di storie del tutto verisimili dell’Italia della provincia durante il boom, qui nel ’63 in Lombardia.

Sordi recita alla perfezione (la camminata rigida creata ad hoc preannuncia già tutto un uomo, vestito in modo così mediocre) un personaggio quasi opposto ai propri cavalli di battaglia (perché nel suo caso ve ne sono tanti, non certo uno né pochi): un ometto remissivo, depresso, un Fantozzi ante litteram. Il quale del futuro genio fantozziano ha il destino del fallimento e il rancore per una rivincita personale che lo porta anche a delle circoscritte, silenziose ma comunque reali ribellioni. Notevole è il ritratto misto dell’uomo di cultura e dell’uomo medio, in una società in rapido cambiamento come quella del boom, come già detto. Il maestro, da mestiere da invidiare, è stato superato da altre mansioni legate alla produttività: molto più umili e molto più remunerative. Qui Sordi è la caricatura vivente dell’uomo di cultura, che si crede superiore alla massa per meriti di studio ed educativi che ben pochi hanno; ma che in realtà ormai è stato ampiamente superato nell’immaginario collettivo dai “barbari”, dagli ignoranti che guadagnano molto di più e quindi sono socialmente molto più invidiabili. Agli occhi stolti della maggioranza, ma tant’è.

Il maestrino in questione è vittima più volte: vittima della burocrazia e del dovere, che lo rendono niente più che un grigio funzionario, ben lontano da dignità intellettuali; vittima della cultura classicista, che porta a disprezzare chi non ha studiato, restringendo allo studio tutto ciò che conta nella dignità di un uomo, negando erroneamente cittadinanza a tanti altri aspetti comunque importanti dell’esistenza; vittima dell’educazione angelicante (indirettamente quella cattolica), che mostra come innaturali i richiami semplici dei piaceri (ma quanto ciò sia ipocrita è testimoniato da come fa il guardone su Ticino), e che porta a negare l’evidenza dei dati negativi offerti dall’esperienza (insiste a dire che “la moglie non gli potrà mai fare nulla di male”, mentre lo cornifica da tempo); vittima della moglie, di cui è innamoratissimo, e di cui è succubo, perché ella è bella e sembra procurargli quel colpo d’occhio sociale di cui sente il bisogno, oltre che l’appagamento del sogno della propria illusoria eccellenza; vittima dello sguardo sociale, così opprimente, in provincia ma non solo, dove il conformismo straripa e annulla ogni originalità e seppellisce spesso i germogli di una vita autentica.

Ne risulta un’aria acida, che degrada. Non a caso chi non si vuole inquadrare finisce anche per uccidersi, come il collega respinto agli esami (vittime anche delle proprie colpe). La moglie è molto più pragmatica, ma è un pessimo personaggio nel complesso: intellettualmente limitata (non è una colpa, sennonché è arrogante e vuole rimanere ignorante, non volendo cogliere i propri limiti), eternamente insoddisfatta, non sa guardare oltre le ambizioni dell’occhio collettivo, quelle dei danè. L’orrore di questa falsa rispettabilità sociale, così tipica nella borghesia lombarda ma non solo, legata esplicitamente al patrimonio ostentabile, è ben descritta, così come lo è la sorprendente maturazione del figlio: appare sfortunato, in una famiglia così disgregata e triste, e neppure tanto intelligente, eppure in silenzio capisce e cresce in modo virtuoso (almeno così si direbbe).

Il finale poi è stupendo, e lascia aperta ogni interpretazione. Ottima la colonna sonora di Nino Rota, così come l’interpretazione corale, in particolare quella di Nino De Taranto del laido direttore della scuola, che si esibisce nella classica falsa parte del dirigente burocrate tutto d’un pezzo all’italiana, di fascista memoria (terribile quando intima al giornalista di non parlare di suicidio ma “incidente”, facendo pesare anche al giornalista la propria posizione sociale, influente su tutti, per mettere a tacere eventuali problemi della scuola che gestisce, dunque di lui stesso).

Evidentemente la pellicola sfrutta un ottimo soggetto, il romanzo omonimo di Mastronardi: non si può che immaginare il libro sia notevole, una volta visto il film. Ma la sceneggiatura è firmata da Age, Scarpelli e Petri, che è anche il regista, a 34 anni, alla terza prova (non ne ha quasi mai fallita una, pare) di una straordinaria carriera, come noto terminata troppo presto, a 53. Anche questa pellicola è magistrale, per i tempi e la gestione in generale.

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