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Il canto di Paloma

Regia di Claudia Llosa vedi scheda film

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La recensione su Il canto di Paloma

di spopola
6 stelle

Sono fortemente discordanti le mie sensazioni “percettive” rispetto a questa insolita pellicola che a mio avviso ha un gravissimo “peccato originale” (proprio in relazione ai temi trattati che forse avrebbero avuto bisogno di un approccio molto più antropologico) in un eccesso di formalismo, nella ricerca preziosa della costruzione della “bella immagine” che stona fortemente con la cornice, oltre che in una sovrabbondanza di simbologie a volte un poco oscure (per mia ignoranza probabilmente) che rendono decisamente periglioso e “dissonante” (quasi astratto) il percorso narrativo, molto meno coinvolgente insomma di quanto la materia incandescente del substrato socio-politico che si nasconde dietro il racconto, richiederebbe. La mia è in un certo senso la evidenziazione di un “disagio” profondo che ho avvertito proprio nel rapportarmi con ciò che intendeva tratteggiare (e denunciare) la regista, simile a quello che spesso mi coglie di fronte alle leccate “composizioni figurative” fortemente estetizzanti di certe “rappresentazioni” di Mohsen Makhmalbaf e famiglia (Viaggio a Kandahar in testa), quasi una distanza “culturale” che diventa incolmabile “divergenza” ideologica proprio per le “enigmatiche” (incomprensibili) e discutibilissime contaminazioni pittoriche di un cromatismo esasperato, poetiche quanto si voglia, ma - a mio modesto parere - assolutamente estranee al contesto, con le quali non riesco proprio a trovare la sintonia necessaria, non solo per la comprensione, ma anche per l’apprezzamento. E’ probabilmente un mio limite, ma poiché è proprio ciò che mi mantiene “lontano” dall’emozione, mi distrae e mi “annebbia”, non posso che sottolinearlo come prioritaria indicazione di dissenso, perché è poi l’elemento che maggiormente incide nel giudizio finale che ne emerge e che, per quanto mi sforzi nell’essere conciliante e “disponibile”, non solo per l’importanza, ma anche per l’impegno evidente che si avverte, non riesco a definire in maniera superiore a quello delle tre stellette che rappresenta la “sufficienza” risicata. La protagonista assoluta è Magaly Solier, indubbiamente il pregio maggiore (ma singolarmente anche il limite) del film. La costruzione coraggiosa (ma anche presuntuosa, lasciatemelo dire) dell’andamento della storia, è infatti tutta studiata in funzione dell’attrice-cantante, prende forma proprio dalle sue affascinanti improvvisazioni canore che aprono e costellano il percorso narrativo, quasi un contrappunto musicale che risulta essere la parte più riuscita e struggente, quella nella quale più profondamente si riesce ad avere una “connessione” empatica con il cuore dello spettatore (per lo meno il mio) e anche la parte alla quale (vedi il canto di apertura) è affidata l’interpretazione narrata degli antefatti che sono così importanti (ma lontani e sconosciuti per quanto mi riguarda, da non averne, prima di questo film, memoria e conoscenza). Un utilizzo quasi brechtiano in un certo qual modo, ma che si inserisce in un contesto così stilizzato da non assumere la dimensione del commento straniante che invita alla riflessione, ma da ribaltarne proprio il senso, fino a diventare singolarmente, al di là di certi sguardi e alcune “rarefatte atmosfere di isolamento anche sensoriale” il solo momento “emozionale” che fa penetrare dentro alla poetica drammatica della “materia” (che ovviamente per i nativi sarà in ogni caso molto più coinvolgente per averne vissuti in prima persona i drammi e le conseguenze e per portare forse ancora oggi i segni di una “traumatizzazione” difficilmente cancellabile). Un film tutto al femminile comunque, che solo una regista donna poteva realizzare e che si assume l’oneroso compito (ma è proprio su questo versante che non riesce a mio avviso a raggiungere lo scopo prefisso) di “deunciare” il recente, oscuro (poco conosciuto) e tragico passato del Perù scosso da rivoluzioni ed avvenimenti scioccanti, soprattutto per le donne, oggetto di violenze inaudite e di soprusi, fra stupri e costrizioni di inimmaginabile portata (la nenia introduttiva è uno squarcio profondo che apre prospettive poi fortemente deluse che ambirebbero a una conoscenza più diretta di ciò che ha causato l’asocialità quasi tutta rivolta verso il sesso maschile, di Fausta, alla quale dà appunto corpo e “voce” la Solier, comunque sempre troppo “elegante” e “attrice”, sia pure di indubbie e prepotenti capacità espressive, per risultare davvero credibile fino in fondo come sarebbe invece necessario che accadesse). Il titolo originale ”La teta asustada”, è in tal senso (e come al solito) più aderente e indicativo di quello propinatoci dai nostri solerti “traduttori” (per altro nemmeno tanto disdicevole in questa circostanza) perché prende il nome proprio da una sindrome (o specie di credenza) che sembra molto diffusa nella terra del Perù anche della contemporaneità (l’insopprimibile tristezza, la paura, la “frattura” indotta dell’equilibrio, che in tante donne sopravvive agli orrori di una guerra già finita da molto tempo, una sensazione fortemente “destabilizzante” che la gente attribuisce essere causata da una malattia che “ruba l’anima” e che si pensa acquisita, o meglio “succhiata” da seno delle madri oltraggiate, insieme al latte della poppata, nei primi mesi della vita). La madre di Fausta è appunto una di quelle donne che ha subito violenza quando era incinta, “che ha dovuto persino ingoiare il pene del suo uomo”. E Fausta continua a subirne le conseguenze di una simile prevaricazione orrorifico con una “menomazione” che non è solo della psiche evidentemente, ma una “superstizione” anomala, che la porta a subire il terrore del contatto sessuale anche praticamente, tanto da aver timore di ogni uomo, escluso il nucleo salvifico della sua famiglia, fino a temere persino il contatto superficiale di una conoscenza, quasi che ogni maschio acquisisse ai suoi occhi il significato e il senso di una minaccia che potrebbe sfociare in un possibile nuovo “stupro” (anche “incrociarne” uno per la strada, se è da sola, le risulta “impossibile”). Una incapacità di rapporto, insomma, che la porta a sentirsi “sicura” solo all’interno de su “guscio”, dove vive “isolata” con l’anziana madre, gli zii e i cugini più prossimi, le uniche persone delle quali si “fida” e che in qualche modo la supportano nella sua dissociazione mentale. Sarà un altro fatto tragico (la morte della madre), a costringerla a confrontarsi proprio con le sue incertezze paurose e con tutte le altre contraddizioni evidenti e pesanti del suo vivere quotidiano, oltre che con la realtà (per lei disturbante) del mondo che la circonda e a fare i conti anche concreti, con il segreto che nasconde dentro di sé, poiché anche lei, seguendo la tradizione, si è inserita nella vagina, al fine di potersi così difendere da ogni possibile penetrazione (violenta o no), una patata che le provocherà disturbi e infezioni non secondarie non solo fisiche, ma anche nel proprio disadattamento intellettivo. Le sue fughe (se così possiamo definirle) sono proprio segnate da quelle improvvisazioni canore di straordinaria intensità e bellezza che ne denudano l’anima (la Solier nel suo paese è sicuramente più conosciuta e apprezzata proprio come interprete di canzoni in lingua quechua che non come attrice) che verranno a loro volta “saccheggiate”, approfittando dell’ingenuità della cantatrice, dalla padrona di casa presso la quale presta servizio, nota musicista in difetto d’ispirazione. La pellicola ha due piani distinti di rappresentazione, perché narra in parallelo anche le storie di una civiltà e di una nazione a noi molto distante, fra matrimoni “condensati”, buffet solo simbolici che trasmigrano da una “cerimonia” all’atra senza essere consumati, e tradizioni folcloristiche spesso annotativamente gustose, e a volte fortemente drammatiche (il cadavere della madre dalla quale sembra impossibile separarsi, avvolto in una coperta fra incensi e aromi che quasi lo mummifica, trascinato e nascosto sotto il letto, senza trovare la forza di “disfarsene” per mettere fine all’ossessione) e possiede al suo attivo indubbi squarci di realismo magico Da una parte dunque è un film di denuncia su quell’oscuro recente passato che ci piacerebbe tanto poter approfondire con una più incisiva e diretta conoscenza, ma dall’altra è intriso invece di un eccesso di simbologie che mette sicuramente in luce il talento visionario della cineasta e la sua stupefacente “inventiva” aiutata da una fotografia di eccezionale pregnanza, una dicotomia esasperata fra i “limiti” di una tradizione secolare e la civiltà rapace che prepotentemente invade sempre più queste terre lontane, di per sé affascinante, ma che trova fatica a coagulare le due dimensioni esplicative in un discorso effettivamente compiuto. Ed è proprio a causa della sua densità “ornativa”, una davvero eccessiva opulenza visiva, che la pellicola appare sovraccarica e trattenuta al tempo stesso, così carica di dettagli e “annotazioni” per “voler fare arte” a tutti i costi, da ottenere un effetto “frastornante” che rischia di attenuare, annacquandolo, proprio il respiro politico del progetto.

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