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La famiglia Savage

Regia di Tamara Jenkins vedi scheda film

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La recensione su La famiglia Savage

di spopola
8 stelle

Un film perfettamente calibrato fra dramma e commedia. Un’opera insomma davvero ben strutturata e tutt’altro che banale che affronta con mano leggera argomenti e situazioni che potremmo persino definire tragici, e lo fa sempre con una punta di caustica irriverenza “critica” che invita alla riflessione ragionata. Ottimi gli interpreti.

Un piccolo, delizioso film perfettamente calibrato fra dramma e commedia. Niente di eclatante o di particolarmente innovativo, nemmeno per quanto riguarda le tematiche e le modalità di rappresentazione, s’intende, ma l’operina è graziosa e ben strutturata, affronta con mano leggera argomenti e situazioni che potremmo persino definire tragici, e lo fa sempre con una punta di caustica irriverenza “critica” che invita alla riflessione ragionata. Uno di quei classici “prodotti” della cinematografia indipendente americana insomma, che riesce a rappresentare senza alcun tono predicatorio, ma con annotazioni sottilmente ironiche che “centrano l’obiettivo” più delle urla, le condizioni di vita (e la fragilità dei rapporti) di una società che è sempre meno capace di dialogare e di comprendersi. Si sorride spesso in questa storia di adulteri e “tradimenti affettivi”, di vecchiaia e di sensi di colpa, di case di cura e di “omissioni” che vede protagonisti due fratelli e il loro padre colpito da improvvisa demenza senile, ma come è prevedibile (e salutare) lo si fa a denti stretti (e con molto amaro in bocca). E’ l’improvvisa necessità di doversi riappropriare della loro condizione di figli da tempo smarrita (pur in una contrapposizione inevitabile di ruoli per le precarie e non più lucide condizioni mentali del padre) l’impatto traumatico ma salutare che, pur riaprendo inevitabilmente antiche ferite mai del tutto rimarginate, finalmente riuscirà a far davvero maturare fino a diventare adulti “responsabili”, in perfetta sintonia ed equilibrio con la propria realtà anagrafica, questi due eterni adolescenti (con i quali avremo imparato a simpatizzare per tutta la durata della pellicola fino a condividerne insicurezze, angosce e frustrazioni, quasi fossero diventati parte integrante della nostra stessa esistenza) per lungo tempo rimasti ancorati alle contraddizioni e ai disagi di una infanzia e una giovinezza indiscutibilmente dolorosa e infelice. La partenza è scoppiettante, e tutta la prima parte potremmo definirla perfetta per incisività drammatica e definizione delle fisionomie psicologiche (un professore di storia del teatro all’inseguimento di agognati riconoscimenti accademici alle prese con un saggio sul teatro di Brecht, il fratello; un’aspirante scrittrice di teatro, precaria nel lavoro, insoddisfatta nella vita e sentimentalmente inappagata, la sorella) ben rappresentate con mano sicura e una proprietà stilistica priva di sbavature e compiacimenti; poi nella parte centrale il tessuto narrativo si allenta un poco, perde parte del suo rigoroso vigore, si dilunga con qualche divagazione di troppo, per approdare a un finale indiscutibilmente “necessario” e anche coerente, se vogliamo, ma a mio avviso un po’ troppo consolatorio e “accomodante”, che comunque riesce a riprendere l’andamento e il ritmo stringato che aveva all’origine. Indubbiamente però la marcia in più (e il valore aggiunto) sta nella prova maiuscola degli interpreti, davvero bravissimi nel riprodurre e rendere credibili tutte le contraddittorie sfaccettature dei loro personaggi (lo squallore infelice di una aridità senza i necessari affetti; la desolazione e l’idealismo; la carica di umana simpatia e la rancorosa cattiveria; l’indecisione e la caparbia ostinazione; la spaventata deriva della memoria e l’insoddisfatta solitudine del corpo). Al primo posto, la sempre straordinaria Laura Linney in corsa per gli oscar e l’inarrivabile PhilipSeymour Hoffman che lavora come al solito di cesello, seguiti a ruota da tutti gli altri, fra i quali non posso fare a meno di citare Philip Bosco (il padre), Peter Firedman, e David Zayas. Per Tamara Jenkins (regia e sceneggiatura), indubbiamente la prova più ragguardevole della sua non sempre inappuntabile carriera, fra molte “dotte” citazioni (e riferimenti) e una colonna sonora coinvolgente e coraggiosa che recupera anche un memorabile pezzo di Brecht/Weill dall’”Opera da tre soldi” (Salomon’s song) nell’indimenticabile interpretazione di Lotte Lenya che è davvero una gioia incommensurabile riascoltare, una volta tanto perfettamente ripulito dai fastidiosi fruscii delle vecchie incisioni che ne offuscavano lo splendore.

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