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I Viceré

Regia di Roberto Faenza vedi scheda film

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Sam Gamgee

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La recensione su I Viceré

di Sam Gamgee
4 stelle

Da un romanzo crudele con personaggi sull’orlo di un baratro umano e morale, un film corretto al limite del didascalico. Rendere sullo schermo le pagine a odore di zolfo de “I viceré” di Federico De Roberto era un’impresa non da poco: Rossellini ci aveva provato, inutilmente. Già, perché le difficoltà non riguardano solo la mole di pagine (oltre 600) da ridurre o il periodo storico in cui si svolge: il trapasso dal dominio Borbonico all’Unità d’Italia; ma riguardano soprattutto il rendere la meschineria, la rapacità ingorda e la bassezza dei membri della nobile famiglia degli Uzeda di Catania, protagonisti del romanzo. Una famiglia in cui i legami di sangue sono coltivati con l’odio e con le eredità da accaparrarsi, costi quel che costi. Sono dei relitti umani di una aristocrazia che vuole rimanere sempre in piedi in maniera spregiudicata e che è disposta a vendersi pur di mantenere prestigio e potere. “Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo farci i nostri affari” dice il patriarca della famiglia, Don Giacomo Uzeda.
De Roberto guardava e raccontava tutto ciò con occhio ironico e profondo pessimismo. Cosa che Roberto Faenza non fa, limitandosi a ricreare solo in apparenza quella bolgia familiare attraverso una serie di morti, testamenti, odi e ripicche. Inoltre per cercare di dare coerenza alla storia trasforma il giovane rampollo di casa Uzeda, Consalvo, in una sorta di narratore che sin dall’inizio del film compare come voce fuori campo a tirare le fila di tutta la narrazione. In questo modo il film perde la sua carica di cattiveria a favore di un andamento piatto, anche se corretto e “ben impaginato”, e i rimandi voluti alla politica attuale, alla nostra “casta” dirigente, si stemperano in un qualunquismo scandito da slogan messi in bocca ai protagonisti della storia: “Destra e sinistra, è tutto uguale”, “Si continuano a fare le stesse birbonate”, e via dicendo. Ironia della sorte, per il film si possono usare le stesse parole usate da Benedetto Croce che, quando uscì il romanzo lo definì “scarso di invenzione e senza nerbo”, condannandolo così a una disistima critica immeritata da parte di buona parte della critica letteraria italiana. Perché bisogna ricordarlo, senza “I viceré” non ci sarebbe “Il gattopardo” di Giuseppe Tommasi di Lampedusa, da cui riprende molti aspetti. Ma tanto De Roberto era cinico e crudele, quanto Tommasi di Lampedusa era nostalgico e affettuoso nel raccontare la parabola del suo principe di Salina.

Francesco Bellu

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