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L'attentato

Regia di Jerzy Passendorfer vedi scheda film

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La recensione su L'attentato

di spopola
8 stelle

Il film di Jerzy Passendorfer,  utilizzando una pregevole sceneggiatura di Jerzy Stefan Stawinski (che aveva collaborato proprio in questa veste anche con Wajda per il suo I dannati di Varsavia) si richiama  a un autentico episodio della lotta partigiana accaduto nel dicembre del 1943, durante l’occupazione tedesca di Varsavia,  relativo a un attentato organizzato da un gruppo di  polacchi (giovani borghesi e studenti sui vent’anni e due ragazze) che, contando esclusivamente sulle loro forze, e sulla loro disperata determinazione, riuscirono a neutralizzare l’automobile di Kutchera, “pezzo grosso” delle SS e responsabile di tante persecuzioni e fucilazioni, e ad uccidere l’esecutore materiale di tali misfatti. Utilizzando, sul piano della tecnica costruttiva, modalità narrative particolarmente vicine a quelle del filone del gangster-movie americano (con il quale ha davvero molti punti di contatto) il film concentra  tutta la  prima parte del girato (che poi si dipanerà nella descrizione dell’azione che da il titolo all’opera,  e delle sue conseguenze pratiche sulla sorte dei cosiddetti “eroi”) soprattutto sui meticolosi atti preparatori, puntando però l’obiettivo prioritario dello sguardo sui delicati rapporti di amicizia o di amore che legano fra loro i vari componenti del gruppo, sulle loro psicologie, sui sottili fili che ne uniscono intenti e vite e sulla differente percezione dell’“evento” che si apprestano a compiere ma, con una “posizione” che definirei “collaterale” (o di sguincio) che sembra quasi voler prendere le distanze (così da poterne meglio valutare “l’anima” privata) proprio dalla finalità ultima di quel particolare intervento armato, come se si trattasse di un presupposto dato per scontato, tanto da non mettere mai in discussione (o in dubbio) l’esito positivo del risultato “di ciò che dovrà essere portato a termine con la lotta cruenta” che però, come vedremo dopo,  proprio nel suo compiersi con pieno successo, darà successivamente il via a una odissea decisamente  “infausta” per la quasi totalità di quelle giovani esistenze che si sono così temerariamente messe in gioco. Sono queste relazioni infatti ad interessare gli autori del film più che l’attentato stesso, il lievitare sottile dei sentimenti, a centralizzare l’occhio della cinepresa, ma come  momenti “da osservare di scorcio”, come ho già accennato sopra, quasi che si tenda a decontestualizzare un poco - storicamente parlando - i fatti e le conseguenze di un atto che diventa quasi privato, e che resta in ogni caso il patrimonio solo “individuale” di chi lo ha portato a termine senza mai raggiungere l’epicità eroica dell’azione collettiva che coinvolge un intero popolo per una operazione di guerriglia “condivisa” contro la tirannide dei propri colonizzatori. E anche nell’epilogo drammatico infatti, rimarrà solo un piccolo spiraglio connettivo o poco più, un tenue legame con le azioni  collegiali della partigianeria locale comunque in movimento, ma lontana come collocazione pratica, attraverso la ragazza superstite il cui innamorato  è caduto nella lotta,  che continuerà ancora “in solitaria” la sua rischiosa collaborazione attiva, fornendo armi ad altri giovani affinché la lotta prosegua e si consolidi. La validità dell’opera va proprio ricercata allora in questo suo mettere in primo piano le persone, il loro essere uomini e donne con le proprie individualità contrastanti (come per esempio quella del ragazzo che scrive poesie, un introverso idealista certamente più attratto dallo studio che dalle armi,  che diventerà un “valoroso” suo malgrado,  attraverso il “sacrificio” estremo della vita,  più che altro però per dimostrare agli altri l’inesistenza -o il riscatto- della sua presunta vigliaccheria). E’ dunque sul piano della sincerità che è importante valutare il lavoro del regista, e in quella capacità implicita di non perdere comunque del tutto di vista “la storicizzazione” dell’evento (che pure è fondamentale), con quel suo riferirsi meticoloso e attento a una difficile situazione politico-sociale, interpretandola senza edulcorazioni o falsi entusiasmi (poca eroicità e molto aderenza a una realtà oggettiva)  che non vede mai (purtroppo) una partecipazione generalizzata come spesso avviene al cinema per enfatizzare il discorso, e nel mettere in evidenza invece il contrasto evidente fra le  fragilità anche individuali di questi giovani abbandonati alle loro interne pulsioni, e la fermezza dell’ideologia e dell’azione, che li rende uomini prima del tempo, poiché loro, sono incontestabilmente degli isolati idealisti, e tali rimangono perché se Varsavia esulterà poi  per il risultato della “battaglia” e l’ardimento del gesto (acquisendolo e rivendicandolo come proprio merito), rimarrà invece vigliaccamente inerte nella difesa di coloro che l’atto lo hanno compiuto davvero, non li preserverà dalla tragedia, perché ben pochi verranno in loro aiuto nel momento del bisogno: il mite meccanico che revisiona le loro macchine e gliele custodisce, il professore universitario che fabbrica rudimentali bombe a mano e li cura quando sono feriti, un’infermiera, un tranviere, una vecchia. Rare (e spesso umili) figure dunque,  mosse  più da umana  compassione che da  determinazione “politica”… per il resto la città  sembra popolata di pavidi borghesi che privilegiano viltà e paura, alzano le mani (si arrendono) con troppa celerità e si affrettano persino ad abbandonare il tram dove uno dei giovani attentatori, ferito e in stato di choc, si è rifugiato, proprio per non essere coinvolti e correre il rischio di farne le spese… Sembra davvero che non esistano coscienze avanzate disposte ad appoggiarli (e le cose stavano probabilmente proprio così perché si avverte l’onestà  quasi dolorosa che traspare) perchè gli altri combattenti, quelli della effettiva resistenza attiva, hanno dislocazioni più lontane e sicure, nelle  campagne (e ci saranno certo validi motivi se la loro rete  di attività non riesce a spingersi e ad essere presente dentro alla capitale) e non possono essere lì a vigilare o a dare una mano anche semplicemente per proteggere. Uno sguardo insomma tutt’altro che critico, ma fortemente realistico, per fortuna (e soprattutto insolito per il periodo in cui è stata concepita l’opera) certamente meno “celebrativo” e più concretamente attinente a una verità che il tempo ha reso più praticabile e meno eretica, perché nonostante tutto, la fredda determinazione e gli accorti preparativi dell’attentato, la fermezza con cui i protagonisti  affrontano le conseguenze del loro gesto, hanno davvero profonde radici non soltanto “ideologiche” rintracciabili nella disperata gioia di vivere della gioventù, nell’insopprimibile anelito verso una normalità fervente e fiduciosa, nel desiderio di un futuro tranquillo e sereno che consenta di affrontare  condizioni d’esistenza nuove, ed è di questo che si parla, e che interessa a Passendorfer, poiché l’intento dell’autore è chiaramente quello di mostrarci “questa singola azione” tenendo principalmente conto dei sui riflessi psicologici e umani, pur non disconoscendone l’importanza (e il merito) rispetto alla “Storia”.

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