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Rosso sangue

Regia di Leos Carax vedi scheda film

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La recensione su Rosso sangue

di ed wood
5 stelle

Nel mesto riflusso che caratterizzò gran parte della cinematografia mondiale negli anni 80, ci furono alcuni autori che giocarono la carta “visionaria”, risultando eretici nel panorama delle rispettive scuole nazionali. Il danese Von Trier (con l’ultra-espressionistico “L’elemento del crimine”), il polacco Zulawski (il delirio demoniaco di “Possession”), l’italiano Bellocchio (le visioni erotico-psicanalitiche di “Diavolo in corpo”), lo statunitense Lynch (il perverso excursus nell’anima nera della provincia americana magistralmente orchestrato in “Velluto Blu”) e altri. Fra questi, c’è anche il francese Carax, con “Rosso Sangue”. Controverso, contestato, esaltato da un gruppo sparuto di cinefili, Carax realizzò con questo film del 1986 una sorta di versione esagerata, stilizzata, grottesca e lisergica, pienamente post-moderna, dei dettami della nouvelle vague. Come in certi film di Truffaut e Godard, c’è la rilettura degli stilemi noir e del classicismo hollywoodiano, all’insegna dell’ossessione amorosa e della tentazione criminale come poli motivazionali per i personaggi, nonché di uno spericolato crossover di citazioni e fascinazioni, anche letterarie, pittoriche, teatrali, musicali, sul fronte stilistico. La revisione del noir è poi tipica di altre opere coeve dei registi suddetti: “L’elemento del crimine” e “Velluto Blu” sono in effetti due post-noir, e senz’altro gli anni 80 furono un decennio fondamentale nella ricodificazione del genere. Il problema di “Rosso Sangue”, ciò che lo rende futile ed irritante (e, alla lunga, tedioso ed espressivamente impotente), è l’esibita ostentazione del virtuosismo tecnico. In ogni sequenza, Carax sembra voler a tutti i costi trovare il modo più platealmente eccentrico per metterla in scena. Non rinuncia a niente: bianco/nero, piano-sequenza, carrello laterale alla Truffaut, istanti di schermo nero, deformazioni, prospettive insolite, sfocature estreme, uso irrealistico di scenografia e fotografia, recitazione straniata etc…Peccato che non ci sia una logica in tutto questo, una visione, un pensiero organico tale da giustificare questi salti mortali. La fascinazione si perde in una ossessiva terapia dell’esibizionismo, dove a forza di “elettro-shock formali” si finisce per non sorprendersi più di niente. Non stupisce che Carax abbia realizzato il suo capolavoro, due anni fa, proprio quando l’incessante mutazione di luoghi, immagini, situazioni, umori, sguardi costituiva l’essenza stessa del racconto e del significato (le continue metamorfosi psico-fisiche del protagonista di “Holy Motors”, un incredibile Lavant). In quel film, Carax delegava all’andamento rapsodico della “trama” e alla natura stessa del personaggio il compito di comporre quell’universo di immagini instabili, cangianti ed accattivanti che caratterizza il suo cinema. In “Rosso Sangue” il reticolato di riferimenti e sconvolgimenti è così complicato da risultare freddo, inerte. I personaggi perdono del tutto il loro peso morale, intellettuale, psicologico e restano meri complementi di un teorema estetizzante, che dimostra solo quanto anche il cinema “libero” abbia bisogno di una guida. Lo sa bene Lynch, che tra tutti i registi citati è forse stato l’unico a saper costruire, partendo dalle sue bizzarre visioni, un universo compatto e coerente di segni e significati (a parte l’ultimo Trier). Per tornare al discorso d’apertura, “Rosso sangue” condivide il nauseante ed esibito virtuosismo di Zulawski nonché il caos sovraccarico di Trier (mi riferisco, per entrambi i registi, solo ai film sopra menzionati), ma non certo la pregnanza emotiva e l’enigmaticità intelligente di “Velluto Blu”. La classe di Piccoli e il fascino delle giovanissime Delpy e Binoche, sommati alla sporadica efficacia di alcune sequenze, salvano in parte il film dall’infamia.  

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