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Grazie zia

Regia di Salvatore Samperi vedi scheda film

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FABIO1971

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Grazie zia

di FABIO1971
6 stelle

Alvise (Lou Castel), viziato rampollo diciassettenne di una ricca famiglia dell’alta borghesia veneta (“Questa fabbrica è mia, questa non è mia, questa non è mia, questa è mia, questa non è mia, anche questa è mia ma non mi piace… Se vuoi te la regalo! Ma ci credi, vecchio Giovanni, che te la regalo? Infatti non te la regalo”), è bloccato su una sedia a rotelle: nonostante medici ed esami clinici abbiano escluso qualsiasi impedimento fisico, il giovane si ostina a non voler camminare, rendendo la vita impossibile ai propri familiari. Non resterebbe che tentare con la psicanalisi, suggeriscono i primari in ultima battuta: intanto i genitori, in partenza per un viaggio a Hong Kong, lo affidano alle cure della zia Lea (Lisa Gastoni), dottoressa in una clinica di Padova e prossima al matrimonio con il compagno Stefano (Gabriele Ferzetti). L’affetto, il fascino e l’influsso di Lea sul carattere insofferente di Alvise scuoteranno l’indolenza e gli sbalzi d’umore del ragazzo, scatenando un’irresistibile attrazione nei suoi confronti. Lea, sorpresa dalle avances del nipote, entra in crisi. Si confessa con Stefano, cercando vanamente conforto e comprensione:

“Sai, non so proprio che cosa mi succeda, Stefano. Sono nervosa, irrequieta: una volta lavorare serviva a darmi equilibrio, adesso mi infastidisce anche quello”.

“Ci sono momenti così, capita a tutti. Vedrai, ti farà bene stare lontana un po’ da casa. E poi, quel tuo nipote: una bella seccatura! Ma quando se lo riprendono? Dopo che sarai impazzita?”.

“Alvise è malato!”.

“Malato... ”.

“Sì, malato!”.

“Ma se è malato, che si curi! Non ha nessun diritto di rompere le scatole agli altri”.

Il loro rapporto finisce, così, per incrinarsi, a scapito di un sempre più crescente interesse di Lea verso Alvise, mentre Stefano, sconcertato dall’improvviso cambiamento di Lea, lasciatasi travolgere dalla passione per il nipote, subisce, ormai impotente, il suo disprezzo. L’imminente matrimonio e il trasferimento a Roma, dove lui lavora come giornalista televisivo, sono già un lontano ricordo:

“Che cosa vuoi?”.

“Che cosa voglio? E me lo domandi? Che tu faccia le valigie. Subito! La famosa decisione che dovevi prendere tu, l’ho presa io per te: ti porto a Roma”.

“A Roma?”.

“Lea, che cosa ti succede? Forse ho mancato in qualcosa? Non lo so, spiegami, perché io non capisco più. Perché non cerchiamo insieme di analizzare, di capire quello che ti sta succedendo?”.

“Ma non c’è niente da capire, Stefano. È tutto giusto quello che dici. È sempre tutto giusto”.

“Che cosa vuol dire tutto giusto? Lea, lo dico per il tuo bene, ma quello che sta succedendo in questa casa… io, non lo so… ha dell’incredibile, dell’assurdo e io mi sento in dovere…”.

“Dovere?”.

“Dovere, dovere, sissignore! …di portarti via”.

“Che cosa stai dicendo? Vieni qui e mi parli di ordine, dovere… Non riesco a capirti”.

“Ah, non mi capisci? Ma non ti accorgi che ti stai rendendo ridicola? A Padova sei già sulla bocca di tutti. Ma anch’io… anch’io mi sento ridicolo. Che cos’è che ti trattiene qui? Vorrei proprio saperlo”.

“Alvise, Stefano dice che si sente ridicolo. E pare per colpa nostra…”.

Lea, sempre più invischiata nel torbido rapporto con il nipote, finisce per annullarsi completamente, assecondando ogni sua eccentrica richiesta fino a quella più estrema: ucciderlo…

Esordio alla regia (e clamoroso successo al botteghino) del padovano Salvatore Samperi, autore anche dello script insieme a Sergio Bazzini (che l’anno seguente si dedicherà, tra l’altro, alla sceneggiatura di Dillinger è morto, qui anche aiuto regista) con la collaborazione di Pier Luigi Murgia: Grazie zia nasce, come il contemporaneo Escalation di Roberto Faenza, sulla scia di I pugni in tasca di Marco Bellocchio, puntando nuovamente l’obiettivo (oltre a riproporne il protagonista Lou Castel) sullo sfacelo dei valori borghesi e sulle falsità del perbenismo. Un film contro, quindi: l’ordine costituito, l’ipocrisia delle (e nelle) istituzioni (la famiglia, il matrimonio), il conformismo, in nome di un’assoluta e rabbiosa esigenza di rinnovamento. Se i bersagli e le ambizioni di Samperi appaiono, però, definiti con precisione, meno equilibrato si rivela l’esito dei suoi sforzi: il cinismo della carica eversiva (splendido il metaforico incipit con la sequenza dell’elettroshock) e la virulenza della vena polemica, infatti, lasciano ben presto il passo ai bollori dell’erotismo, senza una nitida fotografia delle cause del malessere e con la pretesa di contrappuntare il disagio sociale alla base del rapporto (continuamente rimandato e, alla fine, incompiuto) tra zia e nipote (e della guerra psicologica che li brucia a poco a poco) con l’invadenza dei simbolismi (la sedia a rotelle, specchi, occhi, oggetti, dai Diabolik di Alvise ai soldatini di plastica), esplorando senza falsi pudori il crescendo di passione che travolge i due protagonisti, ma anche esibendo un compiacimento eccessivamente morboso, rivolto più a suscitare scandalo e solleticare qualche prurito che a evidenziare l’urgenza di demolire tabù o scatenare turbamenti. La vena sessantottina degli autori finisce, quindi, con l’apparire molto più un manieristico ammiccamento di facciata che il frutto di una provocazione beffarda e realmente “arrabbiata”: lo spirito contestatore di Alvise, infatti, tratteggiato in maniera comunque schematica, soffre visibilmente gli stereotipi della scrittura, che impoveriscono progressivamente la lucidità della messa a fuoco e ne restituiscono un’immagine artificiosa e meccanica. All’universo giovanile, alla famiglia e alla crisi della società borghese, Samperi tornerà con rinnovate ambizioni (e risultanti altalenanti) nelle sue opere successive, prima che il successo di Malizia ne orienterà definitivamente gran parte delle scelte future: di Grazie zia, che nonostante gli evidenti difetti resta uno dei suoi titoli più celebri, si ricorda, perciò, più lo smalto formale della messinscena (dalla fotografia, premiata con il Nastro d’Argento, di Aldo Scavarla, al montaggio di Silvano Agosti, fino alla celebre colonna sonora di Ennio Morricone, che propone anche il brano Filastrocca vietnamita, cantato da Sergio Endrigo, oltre all’esibizione di Luisa De Santis, che interpreta la giovane Nicoletta, alle prese con una straniante versione di Auschwitz di Francesco Guccini) che l’effettiva incisività delle ambizioni satiriche, relegate in secondo piano dagli autori per concentrarsi sull’escalation di erotismo e autodistruzione della vicenda e catturare con insistenza la bellezza conturbante di Lisa Gastoni.

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