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Le passeggiate al Campo di Marte

Regia di Robert Guédiguian vedi scheda film

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La recensione su Le passeggiate al Campo di Marte

di LorCio
10 stelle

Le passeggiate al campo di Marte è un capolavoro e su questo non si discute. Le ragioni sono tante, e non appartengono solo ad una sfera tecnica, stilistica, prettamente cinematografica. Da questo punto di vista, chiariamolo subito, il film è strepitosamente sotto le righe, senza una sola sbavatura, in ossequio al quel cinema francese (sempre più raro) che sa agire in silenzio, incanalandosi tra le pieghe di qualunque tipo di storia, in cui la regia del rispettoso Robert Guédiguian si siede in un posto di seconda classe. È un film colto, che parla di un uomo colto, giunto alla fine dei suoi giorni dicendo alla vita e desiderando l’immortalità del suo mito. Al centro della scena c’è François Mitterand, l’ultimo socialista (attualmente) salito all’Eliseo, il palazzo presidenziale in cui è rimasto per quattordici lunghi anni. Scontato dire che con la sua morte si è chiusa un’epoca: Mitterand è stato l’ultimo re di Francia, un monarca amato ed odiato, che non lasciava indifferenti (lo si nota nella scena del pranzo dello scrittore con la famiglia). Il film racconta gli ultimi sei mesi della sua esistenza, minata dal cancro alla prostata che lo stava distruggendo lentamente, e dedicati alla stesura di una biografia. Ad occuparsene c’è un giovane scrittore in crisi, rappresentante di quella generazione frustrata, perduta, smarrita, figlia di coloro che hanno fatto il sessantotto, e che comincia a vedere in quel vecchio presidente malato eppure forte – espressione, tutto sommato, dell’ancièn regime – una ragione di vita, la bussola, il padre perduto.

 

Sembrerebbe un tema ricorrente in questo particolare contesto storico: è evidente che la condizione di fascinazione di un giovane da parte di un vecchio si ritrovi pure nel rapporto tra Tony Blair e Elisabetta in The Queen di Stephen Frears. Ma l’intento reale, (in)conscio, ricorrente dello scrittore è soprattutto uno: capire il ruolo di Mitternad nella Repubblica di Vichy. È questo il fantasma della storia, la ricerca di una verità negata per anni e di cui forse più nessuno ricorda l’effettiva entità: una ferita ancora aperta per il popolo francese di cui si rende conto il presidente, e che per questo va richiusa con la sua morte. È la morte un altro tema fondamentale di questo grande viale del tramonto messo in scena da Guédiguian, che si manifesta non solo nel corpo provato del protagonista, ma anche nelle statue funebri umide di Chartres, nella figura dell’onnipresente medico, nel cielo grigio della Francia (“il grigio è il colore della Francia”, sostiene il presidente), nella chiusura di un ciclo (“Sono l’ultimo grande presidente. Dopo di me verranno finanzieri e contabili” – ed è vero), nel citazionismo estenuante e necrofilo (su tutti Bach che concepì una composizione cristiana dopo la morte della moglie e dei figli) nei vicoli del luogo eletto a patria eterna, Saint-Denise.

 

Proprio a causa della rappresentazione esistenziale della (preparazione alla) morte viene descritta la parte intima di François Mitterand, difatti è soprattutto l’uomo privato ad essere raccontato, con i problemi di un vecchio zio saggio che la sa lunga (padre di famiglia no: è stato un presidente troppo astuto, furbo, sagace per essere totalmente patriarcale) e deve lasciare il migliore ricordo di sé. Un film sulla necessità di essere umani, sulla memoria rimossa e la memoria raccontata (“la memoria è qualcosa di intimo”), sul ricordo inteso come esprienza, sul potere e il suo esercizio, sull’urgenza di essere unici in un mondo che pretende eredi, o meglio fotocopie degli originali. Nella sua profondità limpida, è per certi versi il ritratto di un vinto che vuole essere ricordato vincitore. Soprattutto è un film sulla fine delle illusioni. Ed è indimenticabile l’interpretazione con cui lo splendido Michel Bouquet riempie elegantemente l’intera opera, come un’onda lenta che va a sbattersi contro le scogliere a riva.

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