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Kill Bill. Vol. 1

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

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La recensione su Kill Bill. Vol. 1

di giuvax
8 stelle

Eccolo, è lui. Di nuovo lui, l'ormai ex enfant prodige del cinema americano. (E ogni volta mi chiedo il perché, lo vorrei sapere, come se si potessero fare dei capolavori solo oltre una certa età). È sempre lui, il genio puro, quello che ci spiazza anticipando i nostri pensieri ("il quarto film di Quentin Tarantino" è uno slogan scelto proprio da lui) oppure che ci stupisce dandoci in pasto il contrario di quello che ci aspettiamo (un pulp spudoratamente finto e grottesco e assolutamente non verosimile). Perché se Le Iene e Pulp Fiction erano la presa in giro della violenza, Kill Bill va oltre, ed è la presa in giro di se stesso (Tarantino arriva perfino ad auto-citarsi, deridendo Le Iene), ma non riesce a scioccare anche lo spettatore più disattento, pur quello colto di sorpresa dal bombardamento visivo di fiumi di sangue e cascate di pezzi di carne di ogni genere (e questa non è davvero un'esagerazione). Non può scioccare per un duplice ordine di motivi: anzitutto per la ben più che chiara vena grottesca che permea l'intero film, l'ironia, quell'ormai noto filo conduttore che consiste nel particolare sguardo strafottente di Tarantino sul mondo intero. Ma, ancor di più, questa violenza non può colpire, non può traumatizzare fino in fondo perché Tarantino usa il mezzo cinematografico con una tale consapevolezza, con una tale padronanza, da riuscire a far passare in secondo piano ogni altra cosa. E, aspetto più importante, lo trattiene nelle proprie sapienti mani e lo dosa al meglio per sparare ogni colpo (è il caso di dirlo!) nell'istante preciso in cui è destino che venga sparato. Il cinema è al 100% al suo servizio, e ogni singolo fotogramma è studiato con precisione maniacale. Tutto è perfetto, ogni scelta stilistica, musicale, cromatica, coreografica. Sì, perché gli attori non recitano, ma si muovono in maniera studiata e ragionata, e quindi anche la coreografia dei movimenti è una fetta importante dello studio sugli attori fatto da Tarantino. Ed è lui che ci fa scoprire che questo splendido mezzo che è il cinema ha in sé tutte le risposte a tutte le necessità, se è vero che in fondo, risolve tutto senza eccessivo uso di effetti speciali, ma solo ricorrendo ad idee e trovate geniali.
Per questo non può impressionare il duello finale nel locale di Tokyo, se… un istante prima che sgorghi il sangue magicamente si passa dal colore al bianco e nero. Non si può rimanere impressionati dalla storia delle origini di O-Ren (interpretata da Lucy Liu), perché anche i tratti più cruenti (decisamente grandguignoleschi) sono smorzati dalla resa: animazione in stile manga e dai toni epici e sublimi. Non si può davvero rimanere colpiti dalle uccisioni e mutilazioni varie se sono compiute così rapidamente da lasciarci il tempo di immaginarle PRIMA di vederle realmente. Il mezzo cinematografico perfettamente al servizio degli scopi del regista, insomma.
Un altro degli aspetti più evidenti è, ma già si era capito, la passione di Tarantino per il cinema, da spettatore. Kill Bill è pieno di citazioni, anzi, è una citazione continua, e non lo è in maniera stupida, come sarebbe se ogni tanto ci fosse un richiamo a qualcosa di noto. Lo è perché è costruito come un insieme di ragionamenti e di analisi sul cinema come istituzione. Un'operazione di cannibalismo ragionato e lucido. Kill Bill è l'apoteosi della violenza come è concepita nel mondo orientale, ma con un'ironia tutta occidentale (e poco americana, in verità) che smaschera i punti dubbi dell'etica del samurai e ne reinventa una che sia più vicina alla nostra etica (per quanto possibile),non totalmente estranea ma non per questo meno seria e convinta. Anticipa i dubbi e le domande che lo spettatore occidentale, educato a pane e buonismo, pone e si pone di frequente. Molto autoironico e consapevole a questo proposito il discorso di Uma-Sposa alla figlia della prima (ma in realtà seconda) vittima, una Uma contrita e forse per un istante pentita che, col cuore (di sua madre) in mano si assume le responsabilità di una vendetta infinita.
Inoltre, questa operazione di studio e analisi consente di rivalutare gli elementi "occidentali" e farli elevare ad un livello in cui si possa cominciare a ritenerli paragonabili agli elementi "orientali". Il duello, insomma, non è scontato, non è già noto in partenza. Essenziale la battuta di O-Ren durante il duello finale, che in un primo momento, dopo aver colpito la Sposa (Uma Thurman), la deride come "americanina che vuole giocare al samurai", per poi chiederle scusa non appena l'altra si rialza e la ferisce, pur se ferita a sua volta. Tarantino non è il solito americanino che vuole giocare al samurai, dunque, e ci tiene a sottolinearlo.
Ma ovviamente, per quanto predominante, il richiamo al cinema dei samurai non è il solo modo di Tarantino di rendere omaggio al cinema che ama. Sembra che ormai questo geniale ragazzo abbia più bisogno di nutrirsi di cinema che di cibo, sembra che ne viva e che non ne possa fare a meno. Tra omaggi a Sergio Leone, ai manga, a Kitano, a Matrix, a Hitchcock e non so più a chi altro, si ha la sensazione che Tarantino sia continuamente in dialogo con lo spettatore, che stia discutendo di ciò che ama, che voglia ricordare agli altri e a sé cosa è stato capace di dare lo strumento cinematografico al mondo. In sostanza, che stia svolgendo un continuo e ininterrotto lavoro di critica in cui vorrebbe rendere attivo ogni spettatore.
Genio puro, insomma. E, una volta tanto, l'idea che sia solo la metà di un film non infastidisce. Il desiderio di conoscere il seguito non è predominante rispetto al godimento concreto che dà l'ultima scena del film, come ogni scena del film intero. Ogni fotogramma è un quadro da analizzare, un messaggio da capire. La colonna sonora, splendida come al solito in Tarantino, è un personaggio, un co-protagonista. E Uma (coprendo con rumori il suo nome per non farcelo sentire Tarantino ci costringe ad identificare il personaggio con l'interprete), Uma, dicevo, splendida perfino quando è orribilmente sporca e spettinata (una sorta di Bruce Willis al femminile) è complice (nel senso di connivente) del regista nell'opera di creazione di un cinema allo stato solido, cinema per antonomasia, arte concreta e tangibile pur se tremendamente cerebrale.
Se così non fosse, lo spettatore rimarrebbe talmente preso dalla storia da desiderare intensamente di conoscerne il seguito, e questo non accade. Tarantino, insomma, riesce a proporci una storia intensa e incalzante, facendocela vivere violentemente e profondamente, ma riuscendo a distogliercene in maniera così abile e sapiente da non farcene interessare. Ci mostra il cinema, insomma, nella sua essenza, in un prodotto artistico legato ancora al concetto della storia ma districabile e da essa e scomponibile nei suoi elementi primari. Insomma, Kill Bill è già arte.

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