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Lo zoo di Venere

Regia di Peter Greenaway vedi scheda film

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La recensione su Lo zoo di Venere

di cheftony
7 stelle

“It’s the only leg I’ve got left. How much of your body can you lose and still recognize yourself? Oh, two legs look so good together, don’t you think? They complement one another. It’s obvious they were made for each other!”
“Like us.”
“Like your legs, Alba: we are complementary.”

 

 

Un bislacco incidente stradale provocato da un cigno causa la morte di due donne e l’amputazione di una gamba di una terza donna, Alba Bewick (Andréa Ferréol). I consorti delle due sventurate sono i fratelli gemelli Oliver (Eric Deacon) e Oswald Deuce (Brian Deacon), che lavorano come etologi allo zoo presso cui è avvenuto lo schianto fatale.
I due reagiscono ossessivamente all’evento, cercando di capire la vita per giungere a concepire il senso della morte: mentre uno guarda allo sfinimento la serie di documentari naturalistici “Life on Earth” di David Attenborough, l’altro osserva e riprende in timelapse la decomposizione di una mela. Da lì passeranno ad animali via via più evoluti (a cominciare dai gamberi) e arriveranno a ricoprirsi di lumache, forma di vita elementare ed ermafrodita. Nascita, peccato originale, evoluzione, fertilità, disfacimento, morte.
I due gemelli imbastiscono una relazione con l’amputata Alba, ancora seguita nella sua convalescenza dal chirurgo Van Meegeren (Gerard Thoolen). Intorno allo zoo e a questi soggetti gravita anche una certa Venus de Milo (Frances Barber), prostituta e sarta, che divide il suo tempo tra soddisfare i due gemelli e le passeggiate con un inserviente daltonico dello zoo, Van Hoyten (Joss Ackland).
Ad un certo punto, il corpo di Alba continuerà ad essere soggetto a trasformazioni in nome di interessi superiori: le verrà amputata la gamba rimanente per ritrovare una simmetria perduta e vermeeriana e rimarrà incinta…

 

“Tell me, Milo! Do you think a zebra is a white animal with black stripes or a black animal with white stripes?”

 

 

Il titolo originale del terzo lungometraggio di Peter Greenaway è “A Zed & Two Noughts”, ovvero: una zeta e due zeri. Z e 00 = ZOO. I gemelli protagonisti si chiamano Oswald e Oliver (OO), di cognome fanno Deuce (“due”) e sono interpretati dai fratelli Deacon (per quanto non gemelli). La zebra è l’animale che per eccellenza inizia con la zeta ed è l’incontro di due opposti, bianco e nero, rispettivamente somma di ogni colore e negazione di ogni colore. Questa premessa è perlomeno sufficiente a capire quanto il cinema di Greenaway sia imperniato su sciarade, giochetti intellettualistici, allusioni.
Non solo: da buon pittore di formazione, il regista britannico ha sviluppato fin dagli esordi un concetto di cinema molto particolare, legato alla cura maniacale della messa in scena. Le sue pellicole degli anni '80 si presentano come dei veri e propri quadri sonori, fatti di statiche inquadrature oggettive, intervallate da lente e sporadiche carrellate. In “A Zed & Two Noughts” il nome ricorrente è quello del pittore olandese Jan Vermeer, i cui giochi di luce - qua richiamati grazie all’inizio del felice connubio fra Greenaway e il direttore della fotografia Sacha Vierny - costituiscono un trait d’union fra le varie scene. La trama, per quanto chiaramente ispiratrice di David Cronenberg per “Inseparabili”, è pretestuosa e la sua evoluzione non segue impianti logici tradizionali. Le scene si susseguono come dipinti, talvolta intervallati dai filmati in timelapse di cadaveri via via devastati dai vermi; i filmati sono brillantemente musicati da una festosa marcetta di Michael Nyman, storico collaboratore di Greenaway.
Tra gli infiniti spunti e rimandi, che sarebbe insano elencare in toto, è giusto evidenziare le caratteristiche di alcuni personaggi: Venus de Milo ha paradossalmente le braccia, mentre il chirurgo Van Meegeren viene descritto come cugino del falsario (realmente esistito) dei dipinti di Vermeer. Quindi un imitatore, un devastatore, un creatore di inganni. Difficile giudicare le prestazioni recitative in un’opera così sui generis, che sacrifica volti, espressioni e movenze in favore di composizione equilibrata, staticità, nudità. Anche la simmetria ha un ruolo enorme in “A Zed & Two Noughts”, sia a livello tematico che compositivo.
Rimarco l’ovvio: quello di Greenaway è un cinema assolutamente non per tutti i palati, provocatorio, sperimentale, barocchissimo.

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