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Lo zoo di Venere

Regia di Peter Greenaway vedi scheda film

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La recensione su Lo zoo di Venere

di OGM
10 stelle

Il confine tra la vita e la morte è colmo di inquietudine, perché è attraversato dall’aria in movimento e bersagliato dalle luci intermittenti. La decomposizione, come l’agonia, è un processo pulsante, che respira al ritmo di un continuo andirivieni di giorni e notti. La regolare alternanza di bianco e nero nel manto di una zebra (e di strisce piene e vuote nel motivo a sbarre di una gabbia) è l’ibridazione che diventa legge e principio vitale, prescrivendo che il contrasto e la simmetria esprimano l’equilibrata coesistenza tra gli opposti. La specularità è la diversità vista come necessario complemento, che integra la tesi con un’antitesi che non è difformità, ma solo una forma invertita di uguaglianza.  I gemelli Oliver e Oswald, fratelli siamesi separati subito dopo la nascita, sono le due metà di uno stesso intero, e difatti le loro sorti seguono percorsi totalmente paralleli. Sono loro le “O” a cui si riferisce il titolo originale, mentre la “Z”, ultima lettera dell’alfabeto, è il simbolo della fine che ossessiona le loro menti: dopo l’incidente stradale che li ha resi entrambi vedovi, il loro lavoro di biologi è completamente dedicato alle ricerche sulle dinamiche della putrefazione nelle varie specie animali. La storia della vita sulla Terra viene da loro ripercorsa in negativo, come la storia della morte, che, per essere raccontata, ha bisogno delle immagini necroscopiche di organismi sempre più evoluti. Il loro laboratorio è uno zoo di cadaveri, che mostra il modo in cui i corpi di pesci, rettili, uccelli e mammiferi progressivamente si trasformano, fino a dissolversi. Le loro telecamere, puntate su quei sepolcri a vista, documentano il disfacimento come un processo complicato e laborioso, dotato di una sua logica ed una sua estetica. Ad intrecciare le danze, in quegli ammassi di pelle, sangue e carne, sono, ancora una volta, la presenza e l’assenza, il moto e l’inerzia, in una coreografia morbida e lenta come l’incedere di una lumaca. Al tutto presiede una sorta di melodia, in cui, però, oltre ai suoni, cambiano anche le forme ed i colori: questa sinfonia di effetti ottici richiama l’essenza dell’architettura, che, con i suoi elementi geometrici, prospettici e cromatici, domina gli scenari in questo film come in gran parte della cinematografia di Greenaway. In questa rigorosa armonia l’uomo si inserisce come la parte di un tutto, che comprende la fauna, le divinità, gli angeli e i demoni, e in cui un cigno si confonde con un’eccentrica donna dal cappello piumato. Essendo un tassello di questo gigantesco mosaico universale, anche la persona si riduce ad un dettaglio ornamentale, che deve essere sagomato e composto secondo l’ordine prestabilito: ad Alba Bewick, che ha perso una gamba, deve essere quindi, per coerenza,  amputata anche l’altra, ed il padre dei suoi figli non può che essere, a sua volta, un uomo mutilato. In questa storia l’arte vive, nell’esistenza umana, come oggetto di studio e fonte di disciplina, a cui l’individuo devotamente si sottomette, fino al sacrificio estremo, per arrivare a capire le profonde ragioni del suo destino nel mondo. Il linguaggio della pittura è, come l’alfabeto, un codice semplificato e convenzionale che l’uomo utilizza per orientarsi nella sconfinata varietà del creato: ad ogni segno si associa un significato concreto, che, viceversa, diviene il modello del segno: la lettera “Z” è stata introdotta  - così qualcuno asserisce nel film – per poter pronunciare il nome della zebra, ma, d’altra parte, è la zebra che, abitualmente, indichiamo al nostro interlocutore per trasmettergli la lettera “Z”.  Così la povera Alba Bewick, che il suo chirurgo scopre somigliante alla Ragazza seduta al virginale ritratta da Jan Vermeer, è costretta ad interpretarla in un nuovo quadro dipinto dal medico aspirante pittore. Originale e copia vengono a coincidere, il rappresentante si fonde col rappresentato, in una unità duale (il Deuce che compare nel cognome dei protagonisti) che fa sfumare il confine tra invenzione e realtà (come nelle storie raccontate da Venus de Milo) e chiude simbolicamente il cerchio tra l’alfa e l’omega. A questa cosmologia circolare che tutto spiega, mentre tutto confonde, si sovrappongono gli echi enciclopedici e lessicografici dei primi film di questo autore, come Intervals (1969), H is for House (1973) e The Falls (1980). Nasce così un’opera nel contempo esplicita ed ermetica, che può essere, a pieno titolo, annoverata fra i capolavori di Greenaway, per il modo in cui riesce a costruire, nella storia, la perfetta identità tra forma e sostanza.

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