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Goddess of the Fireflies

Regia di Anaïs Barbeau-Lavalette vedi scheda film

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La recensione su Goddess of the Fireflies

di leporello
8 stelle

Viaggio, viaggio... Oltre la notte e il giorno Nello spazio incredibile dell'amore. Viaggio Sulle acque sacre di un fiume indiano. Viaggio, viaggo... e non torno mai più

           Vorrei partire dalla fine, e dalla musica. “Voyage Voyage” (si ascolta qui), brano a cavallo tra le ultime immagini e i titoli di coda, appartiene al repertorio di Desireless, una cantante francese di discreto successo che la compose nel 1986, cioè nel periodo in cui (e nei modi anche estetici con cui), a mio modesto parere, l’età dell’oro della musica pop-rock giovanile andava definitivamente tramontando. Anaïs Barbeau-Lavalette (o chi per lei, non so chi abbia curato la colonna sonora, ma se ne parla qui) ne utilizza invece la versione di Anja Franziska Plaschg, in arte “Soap & Skin” (si ascolta qui), che compare in un suo album del 2012, cioè di circa venticinque anni dopo. Cronologie a parte (ma il senso del tempo in questo film è importante, forse ci torneremo sopra più tardi), mi piace sottolineare l’intelligenza con cui la regista canadese, con questa mossa e alla luce degli eventi che si sono appena conclusi, riesce a trasformare una decadente canzoncina techno pop da “sotto gli ombrelloni” in un brano acusticamente molto struggente e il cui testo acquista d’improvviso  un senso profondamente esistenziale.


   Individuare un anno preciso in cui si possa collocare la storia non mi è facile: i due riferimenti artistici principali sono (la musica prende un capitolo a parte...) quello letterario del famosissimo “Chiristiane F. Noi i Ragazzi dello Zoo di Berlino” che è del 1978, e “Pulp Fiction” che non ha bisogno di presentazioni e che uscì nel 1994. Certo, la capacità di diffusione di un libro è abbondantemente inferiore a quella di un film, fatto sta che sono questi i due distanti punti cardinali della vicenda.


    La vicenda: Catherine (Kelly Depeault) è un’adolescente sballottata dalla crisi matrimoniale in cui versano i suoi genitori in aria di separazione; non tanto questa, quanto la sofferta e violenta scarsa determinazione con cui i due la vivono, costringono Cat (così la chiamano gli amici) al difficile esercizio di dover sempre più spesso bloccare se stessa e i propri impulsi di vita per assistere alle liti irrazionali dei due nei confronti delle quali  la ragazza non sa reagire se non girando la testa dall’altra parte (e come, se no?).
Parallelamente, un mondo giovanile in fermento (tutti leggono “Christiane F!  Tra i suoi amici e compagni di scuola, Cat annovera una maliarda alta di statura, bionda, arrogante e bellissima; il di lei  “ragazzo” col quale incrocia sguardi pericolosamente esposti alla bestiale gelosia di lei, una ragazza divertente e svagata coi capelli corti che diventerà la sua migliore amica, e infine un giovane timido e introverso con i baffetti scuri, una lunga coda di cavallo, e uno stereo portatile personalizzato che rimanda al mondo sottomarino (viaggiando, appunto...). Sopra costoro e tutti gli altri, si pongono come macigni l’universo dell’esperienza pesante della droga e di quella che la Storia (per ora vincente) vorrà definire come “liberazione sessuale”.


   E’ un grande punto di forza e un merito, secondo me, come Anaïs Barbeau-Lavalette riporti e ricalchi senza dare la minima sensazione di “plagio” quella che è esattamente la stessa atmosfera dei ragazzi dello zoo di Berlino, o di come riesca a farci riascoltare “You Never Can Tell”, il twist più famoso della storia del cinema con Travolta e la Thurman nel capolavoro di Tarantino come se fosse ballato  per la prima volta, come se provenisse da un desiderio lontano,  marcato dal timbro dell’anelito a una destinazione sconosciuta, un viaggio dal quale non si vorrebbe mai tornare, ma del quale non si sa nulla e nulla, data l’inesperienza, si potrà mai sapere se non pagando il prezzo dei dolori che inevitabilmente verranno.

Come già nel suo  “Inch’Allah” film di otto anni prima, la Lavalette anzitutto indovina pienamente la scelta degli attori (come la Evelyne Brochu protagonista del primo film, anche la “bella e maledetta” Kelly Depeault riporta esattamente le caratteristiche somatiche migliori per illustrare la storia), e ancora di più, se possibile, l’abilità con cui la camera a mano ferma i frequenti primi piani, gli sguardi,  costruendoli e plasmandoli, e ne faccia un’opera d’arte a sé stante, anche a discapito (giustificato, a mio parere) di una visione scenica di insieme che, in casi come questi, è un bene che resti in secondo piano (vale un tesoro solo l’ultimissimo sguardo in camera di Cat, ripresa dall’alto, che si scherma gli occhi dalla luce prima del nero dei titoli di coda, gemello diverso dell’occhio del piccolo palestinese che penetra il muro israeliano in Inch’Allah...).


   Vorrei anche finire con la musica (e il tempo). A parte che ogni film (com’è questo) che voglia ospitare un qualche brano di Arvo Pärt, parte (cacofonia involontaria) con un voto in più “sulla fiducia”, ma... a proposito di quella “decadenza” cui accennavo all’inizio, vorrei segnalare come una delle scene a mio avviso più belle del film, deviando per una attimo dal racconto principale per attardarsi sulla “vicenda-radice” della separazione dei genitori di Cat, sia accompagnata dall’ottimo brano “Ayoye” (si ascolta qui) a firma degli “Offenbach” (papà e mamma che, spartendosi merceologicamente la vita,  rivendicano brutalmente la proprietà sull’ellepì in questione) una band canadese  ormai estinta fin dalla metà degli anni ’80 (esempio poco famoso dell’estinzione musicale di cui dicevo prima) della quale ignoravo completamente l’esistenza fino ad ora, che con un’atmosfera molto “Pink Floyd” contribuisce all’estraniamento temporal/musicale con cui questo “La déesse des mouches à feu” ci viene presentato.

Ultima segnalazione: cosa c’entrano le lucciole? Appunto: nel cuore del film, ricca di primi, primissimi piani, le mani di Cat e di Keven (Robin L'Houmeau, il ragazzo timido con la coda di cavallo e i cavallucci marini sullo stereo) si passano reciprocamente la deità elementare (nella distanza giusta che non coincide quasi mai con la distanza desiderata) insita  in questi piccoli, innocui, affascinanti insetti, l’anelito al viaggio che sfocerà nel viaggio che non saprà trovare la strada del ritorno, pur essendo questo (il ritorno) l’unica cosa che viene percepita come davvero importante. Musica in sottofondo? Arvo Pärt, ca va sans dire.

 

   Non trovo altro disponibile alla visione di questa autrice canadese, peccato. Speriamo nel futuro. Io la tengo volentieri d’occhio.

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