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The Body Confession

Regia di Jo Keung-ha vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su The Body Confession

di alan smithee
7 stelle

locandina

The Body Confession (1964): locandina

FEFF 21 - UDINE : RETROSPETTIVA "I CHOOSE EVIL"
Cosa non si fa per i figli....
Specie se sono donne, e ben 3, viziate, coccolate, protese a guardare al bello di una vita che per la generazione precedente è apparso come un lontano miraggio irrealizzabile.
Una vedova di guerra, in pieni anni '60, porta ufficialmente avanti una fiorente attività di boutique in Busan, e riserva i propri risparmi a favore delle figlie, allontanate di casa verso la più agiata Seoul, per far loro frequentare scuole rinomate e avviarle possibilmente ognuna verso un matrimonio consono che le renda indipendenti ed estranee al mondo del lavoro e del sacrificio sopportato dalla scaltra e laboriosa, instancabile e furba vedova.
Ma se da un lato le figlie ignorano la vera attività della genitrice, tenutaria di un bordello e trafficante numero uno al mercato nero tanto da meritarsi il nome di "Presidente", dall'altro non sa che ognuna delle tre figlie si avvia ad intraprendere scelte di vita che, per quanto singolarmente legittime o giustificate, non rappresentano affatto l'ideale materno per cui la madre si è sempre battuta, mettendo in piedi e gestendo con fortuna i suoi loschi commerci.
Da un regista pressoché completamente sconosciuto nel mondo Occidentale quale è Jo Keung-ha (1919-1982), ex fotografo in seguito dedicatosi al cinema e noto in Corea del Sud per una manciata di film melodrammatici di un certo successo, "The body confession" ci trasporta in un viaggio a tratti appassionante, a tratti ormai inevitabilmente e per fortuna fuori dal mondo, in una società non dissimile alla nostra di un ventennio precedente a quella del film, nel periodo della nostra ricostruzione post bellica, quella che ha dato vita, specie nel nostro paese, ad un genere cinematografico strettamente legato all'attualità drammatica del momento.

scena

The Body Confession (1964): scena

Il film ha l'originalità e la vitalità strategica di presentarsi diviso in due parti: la prima più brillante e a tratti sin civettuola, fin ardita e maliziosa, atta a descrivere, con uno stile puntuale di stampo quasi neorealista che non si dimentica tocchi di sana ironia, uno scorcio sociale tipico di un popolo che ha sofferto e lotta con tutte le sue forze per riciclarsi verso una esistenza più agiata, che condenta almeno ai propri posteri di tenersi lontane le sofferenze patite dagli avi che sono riusciti a sopravvivere.
Poi il film si carica di una suo soverchiante afflato melodrammatico che lo affianca ad un genere completamente differente, alla Mararazzo si potrebbe dire, ove la drammaticità della vicenda prende campo quando la verità, nuda e cruda e doprattutto drammatica e senza scampo, si fa spazio su troppe menzogne, ristabilendo il corso corretto dei giochi.
Certo giustizia avverrà quando ormai i giochi saranno fatti e le scelte definitive saranno state intraprese senza possibilità di tornare indietro, se non nel ricordo di chi non c'è più ed è risultsto un ingannatore solo a fin fi bene.
Ne scaturisce, soprattutto, un bel confronto generazionale che diventa prezioso ed insito visto più di cinquant'anni dopo agli antipodi del globo. E una figura di donna - il Presidente, appunto, corpo in vendita e risorsa chiave e sacrificale che sceglie "la via del male" (al centro della interessante retrospettiva di cui sopra, incentrata sul cinema e la società sudcoreane dai '60 ai primi' 90) per il bene della famiglia - dominante e cinica, seppur a fin di bene, burattinaia intrepida, ma non infallibile come erroneamente ritiene di essere, che diviene la vera chicca del prezioso e raro film, di cui il FEFF ci ha omaggiato con grande lungimiranza

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