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Gadjo Dilo - Lo straniero pazzo

Regia di Tony Gatlif vedi scheda film

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La recensione su Gadjo Dilo - Lo straniero pazzo

di Peppe Comune
8 stelle

Stéphane (Romain Duris) è un giovane parigino che sta girando in lungo e in largo la Romania alla ricerca di Nora Luca, una cantante di origine rom che piaceva tanto a suo padre. In una delle sue tappe, stanco ed infreddolito, Stéphane conosce Izidor (Izidor Serban), un vecchio zingaro il quale, in preda agli effetti dell’alcool, inveisce contro il mondo per l’arresto del figlio Adriani (Florin Moldovan). Izidor dice al ragazzo di conoscere Nora Luca e che lo aiuterà a cercarla. Lo porta con se al campo rom offrendogli ospitalità. La comunità che vive nel campo, dapprima è diffidente nei confronti di Stéphane, poi lo accoglie senza reticenze, come se fosse sempre stato uno di loro. I giorni passano ed il giovane francese è sempre alla ricerca della sua cantante. Ma intanto ha conosciuto Sabina (Rona Hartner), e forse ha trovato l’amore.

 

 

“Lo straniero pazzo” di Tony Gatlif (Pardo d'argento 1997) è un film alquanto alieno nell’ambito della cinematografia europea, non solo perché narra della vita all’interno di una comunità rom, un tema assai poco trattato al cinema, ma anche per come mette in crisi con ironica semplicità il modo canonico con cui si è soliti attribuire le patenti di “normalità”. Del resto, sono marchi di fabbrica di Tony Gatlif questi, un autore che, anche quando non ha esplorato direttamente il mondo degli zingari, ha sempre centrato la sue storie sulla vocazione nomade dei protagonisti.

Sembrano tutti pazzi in questo film, Stéphane, che si mette in viaggio con delle scarpe da rattoppare alla ricerca di una cantante tutt’altro che popolare ; Izidor, l’ebbro lucido, il suonatore di violino, che accoglie uno sconosciuto nella sua umile dimora come se si trattasse della cosa più naturale da farsi ; tutti i membri del villaggio, uomini, donne e bambini, che cantano e ballano come per esorcizzare il loro fatalismo greve. Ma è lucida pazzia la loro, di quelle che fanno riconoscere ognuno come abitanti legittimi di un mondo a parte, figli di un vagabondare dello spirito che non può e non vuole conoscere confini. Il film si adegua con estrema naturalezza all’andamento ramingo di Stéphane, facendocene cogliere tutta l’indole anarcoide e tutta la voglia di lasciarsi travolgere dalla spontanea allegrezza gitana. La sua essenza di uomo nomade e il carattere tipico della comunità rom che lo adotta tendono a coincidere in nome e per conto di una stessa idea di libertà, concepita da loro, non tanto come un prodotto della ragione umana, ma come una condizione dell’animo che va solo assecondata. Poi c’è l’amore per la musica a fare da ulteriore collante per entrambi, ma anche in questo caso, non si tratta di una passione filtrata attraverso l’intelletto, ma di un’istanza spirituale che sembra nascere dall’esigenza atavica di far corrispondere una canzone ad ogni sentimento umano conosciuto, una sonata ritmata ad ogni movimento del corpo. Una musica per ogni popolo. Come un rituale salvifico che accorda in un'unica sinfonia tutte le voci del mondo.

Tuttavia, Tony Gatlif non fa di questo film un’apologia in salsa moralistica dell’universo rom, tutto canti, balli, suonate di violino e amicizie disinteressate, limitandosi a coglierne lo spirito identitario, la coesione comunitaria, cose che servono a disegnare la loro ostinata alterità, a far emergere la ferma volontà di non voler essere altrimenti. Come dimostra tutta l’ultima parte del film che, in aperto contrasto con la scanzonata allegria che l’aveva contraddistinto, si apre al dramma esibito culminante in uno straziante rito funebre. Stéphane, educato per essere un figlio del mondo, privo di pregiudizi ed avidità, un ragazzo che ha conosciuto tutte le musiche del pianeta grazie ai viaggi del padre vagabondo, si vede costretto a consegnare alla nuda terra le registrazioni incise su nastro delle canzoni rom. La fine di un popolo segna la fine della sua musica. La fine della musica decreta la fine del mondo. Stèphane saluta Izidor, suo “eccezionale amico” ,  il viaggio deve continuare.

Non parlerò in maniera dettagliata del finale, anche perché non credo sia importante per l’economia di quanto scritto. Dico solo che collega tremendamente il film alla nostra contemporaneità mostrando il labile confine tra, l’accettare un popolo per quello che è, nella sua multiforme genericità di valori, o accordargli semplicemente una sorta di tolleranza condizionata. Volendo tener fede al primo caso, ogni crimine commesso da un qualsiasi membro di un determinato popolo verrebbe trattato nella sua particolare fattispecie e come tale sottoposto a giudizio. Assumendo come regola l’atteggiamento proposto dal secondo caso, invece, la colpa di uno potrebbe fungere da pretesto motivato per innescare una criminalizzazione generalizzata e indiscriminata contro un intero popolo. Distruggendo tutti e tutto, la fiducia nei propri simili come la voglia di cercare la felicità nella musica. A mio avviso, questa è  una riflessione sociale presente nel film di Tony Gatlif, e pur rimanendo nei limiti di una generica enunciazione di principio, mi è sembrato giusto sottolinearne la presenza da me ravvisata. In conclusione, “Lo straniero pazzo” è un gran bel film, con le imperfezioni tipiche delle opere che nascono con la chiara intenzione di non essere perfette. Lucido ed impuro insieme. Pervaso da un’allegrezza dolente, in linea con l’improvvisazione ragionata del popolo rom. Film da riscoprire e promuovere.

                                                                      

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