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L'isola dei cani

Regia di Wes Anderson vedi scheda film

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La recensione su L'isola dei cani

di Texano98
7 stelle
Fra realtà e plastilina, Wes Anderson muore e rinasce, eppure egli è sempre se stesso. Lo stesso sguardo, lo stesso cuore; la stessa realtà, dicevo in apertura, la stessa plastilina. Il suo spirito vola sopra la piccola borghesia americana, sopra le avventure di uno sperduto hotel europeo, egli va sotto terra insieme a una famiglia di volpi, si bea dell'umidità e dell'armonia, infine buca il mondo e fuoriesce dall'altra parte, sopra un'isola ricolma di spazzatura e di cani.
 
L'isola dei cani, per l'appunto, è una delle opere più ambiziose del regista texano. Egli ambienta l'intreccio in Giappone, lo riverisce: si inchina dinanzi a tradizioni e linguaggi, musiche e costumi. L'occhio della cinepresa manda in tumulto questo immenso universo fittizio:  i personaggi, le didascalie, le musiche, la vita nella metropoli e nella discarica, l'autore non allenta mai la stretta sullo spettatore fino alla fine del film. Egli ritrae meravigliosi cani scapestrati, pronti a spalancare le fauci ma intimamente impauriti e soli, così come scienziati che studiano nuovi farmaci in un turbinio di artifizi elettronici - l'estetica è quella tipicamente retrò, atta a valorizzare le capacità concrete dell'uomo - ma anch'essi sono fragili e inquieti. E' una Cura Ludovico, quella di Anderson: è un sadico, senz'altro uno dei più arguti in circolazione: i suoi strumenti di tortura sono i colori dell'amicizia e dell'amore, insomma, egli è un vero e proprio genio del male.
 
Senza mai tradire uno sprazzo d'indecisione, l'autore americano tiene sotto scacco l'umanità e il mondo canino: la fantasia andersoniana straripa dal film, potrebbe protrarsi all'infinito come una cascata, senza mai trovare una fine. Il suo palco di burattini è sempre in bilico, pronto a detonare da un momento all'altro; egli salta d'isola in isola, senza pace, pronto a estrarre dalla tasca una nuova invenzione. Ricordate la traduzione simultanea nel Dune di Lynch? Bene, qui opera al contrario: i cani risultano comprensibili, gli umani invece vengono tradotti con sufficienza, solo quando si rivelano strettamente necessari allo sviluppo della trama. A ben pensare, Wes Anderson è uno degli autori più coerenti del cinema tutto. Per nulla al mondo baratterebbe il proprio sguardo così radicale, egli agisce quasi di maniera: l'opera è sorretta da un'idea geniale che in mani altrui si sgretolerebbe, priva di guizzi, ma che in quelle di Anderson diventa ricca, pregna ogni secondo di trovate registiche oppure sceniche. E' questa la formula vincente del suo cinema: l'inventività continua che strappa il dettaglio inedito a situazioni altrimenti mediocri; il punto di vista innovativo - canino, se vogliamo - ovverosia quello dell'eterno giovane che non ha paura di vivere e di esprimere le proprie fantasie, usate come arma di difesa contro il mondo moderno.
 
Con questo film Wes Anderson adopera anche una chiarissima presa di posizione politica: egli assurge a paladino della proliferante sinistra "liberal" americana, con pugni chiusi innalzati non per lotte sociali ma in nome di battaglie civili, ad esempio a difesa degli animali. La critica al sistema politico - adoperata strizzando stilisticamente l'occhio a Quarto Potere - è della medesima matrice, diretta alle famigerate finto-democrazie al di là del pacifico, con politici pronti ad avvelenare gli avversari pur di rimanere zar incontrastati. Non a caso, in chiusura del cerchio, sarà la giovane americana a fungere da spirito salvifico all'interno della situazione, risvegliando il popolo giapponese con il verbo della democrazia yankee. Che poi, da amico della natura quale sono, mi chiedo gioviale: sterminati tutti gli animali domestici del mondo, quale sarebbe la ritorsione al di là del furore emotivo dei popoli? Le colonne di plastica che inquinano l'isola dei cani, esse sì che sono una minaccia - senza sosta, asfissiante - non per l'Atlantico o per il Pacifico ma per l'intera umanità: non dovrebbero essere mero artificio estetico, Wes!
 
Al di là di questo inciso sulla fallacia politica dell'opera, vorrei in conclusione concentrarmi sulla spontaneità con cui Anderson riesce a delineare i propri personaggi: si pensi all'isteria della già citata Tracy, emblematica fin dalla chioma ribelle, una bomba ad orologeria irresistibile che deflagra più volte, come nell'istante in cui frantuma contro un muro il proprio (preziosissimo) drink a base di latte e cioccolata, il tutto per risvegliare l'orgoglio di una scienziata avvilita  - una scena esilarante per l'alchimia fra i movimenti della cinepresa e dei personaggi. Pensiamo poi ad Atari, il dolce protagonista del film che si diletta a comporre haiku: la cosa che rimane più impressa, al di là del suo essere mosso dall'amore più puro, è il suo aspetto emaciato che lo avvicina alla figura di un morto vivente - l'animazione "passo uno" aiuta molto sotto questo aspetto. L'autore, invero, buca più volte l'apparente armonia del film: pensiamo ai primi piani su Atari e sul suo ansiogeno digrignare di denti, oppure alla cattiveria con viene ripresa la preparazione di un piatto di sushi, con  l'apertura d'un granchio ancora vivo e la spinatura d'un salmone, la cui testa, in un angolino, continua ancora a respirare. Anderson architetta una sinergia che sbilancia il film prima sul dramma, poi sull'orrore (vedasi anche i brutali esperimenti sui cani, oppure le esilaranti "lastre" a cui egli sottopone i protagonisti!), poi sulla commedia (nera oppure più leggera) e infine sulla riflessione politica, il tutto con piccole, veloci ed oculate scelte.
 
L'isola dei cani è l'affacciarsi dalla cima di un altissimo palazzo: il mondo di Wes Anderson si staglia, immenso, ai nostri piedi. Questa volta con un tocco di polveri grigie.

 

 
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