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Lo sguardo di Ulisse

Regia di Theo Anghelopoulos vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Lo sguardo di Ulisse

di ed wood
8 stelle

Da un pretesto narrativo esile esile (un cineasta alla ricerca di tre rulli mai sviluppati che potrebbero costituire il primissimo film della storia del cinema greco, datato 1905), Anghelopoulos ricava tre densissime ore di idee ed immagini che vanno a formare un affascinante e sofferto poema audio-visivo. L'universo tematico trattato dal compianto maestro greco è, al solito, costituito dai temi portanti della memoria, della nostalgia, del viaggio, della Storia come (falso) movimento messo in atto da insanabili conflitti che si ripropongono con cadenza ciclica, dell'Uomo come eterno esule in un mondo che lascia cadere la bellezza nell'oblio per proporre un infinito paesaggio di desolazione. Un cinema che apparentemente tende a sublimare i mali del Tempo nella calma olimpica di sontuosi piani-sequenza, i quali in realtà non riescono a contenere lo strazio di urla viscerali: un misurato Hervey Keitel, che qui dimostra di essere uno dei più grandi attori viventi, geme come un cane (sì proprio come nel "Cattivo Tenente" ferrariano, ossia quanto di più lontano di possa concepire dalla poetica di Anghelopoulos) al cospetto di corpi bosniaci dilaniati nella nebbia di Sarajevo. La grandezza e la pregnanza politica di questo cinema sta nella capacità di collegare guerre, dittature, violenze del passato con quelle del presente, grazie alla potenza "condensatrice" dell continuum visivo indotto proprio dal piano-sequenza. "Lo sguardo di Ulisse" è un accorato excursus nella Storia del balcani, fino alla cronaca contemporanea (il film fu girato nel 1995, in piena guerra): la Madre Patria (non solo del protagonista, alter ego del regista, ma anche di tutta la cultura occidentale), l'Albania terra di emigranti, la Jugoslavia martoriata da Milosevic e Mladic, e poi Romania e Bulgaria, rivissute od evocate come co-protagoniste degli orrori di passate Guerre Mondiali. E la traiettoria del film (una non-narrazione rapsodica, sommessamente felliniana, dove il confine fra sogno, immaginazione, ricordo e realtà è labile, e dove il protagonista ondeggia fra un "se stesso" sempre meno definibile e l'appiglio a vite altrui, come quelle dei fratelli Manakis) porta inesorabilmente dalla Grecia dell'altro-ieri (ma sembra quella di oggi, in crisi nera, come afferma un taxista nel film) alle bombe in Bosnia. Al termine dell'affannosa ed ossessiva ricerca dello sguardo primigenio, dell'innocenza, della purezza che solo il primo film della Storia di un popolo può riservare, Keitel trova solo nebbia, freddo, violenza, morte. Di questo dovrà raccontare al suo (eterno) ritorno da un viaggio-agonia che non finisce mai; non di cinema, nè di bellezza, nè di purezza. Film sconsolato, che racchiude l'aria sfinita e terminale di chi sa di essere arrivato alla fine del viaggio, pur sperando sempre in una rinascita; l'atmosfera melanconica di "fine millennio" getta una cappa oppressiva su tutto il film. E' un po' il contro-campo uggioso del coevo e solare "Lisbon Story" di Wenders, altro film-viaggio sulla fine del cinema, della civiltà occidentale, del millennio. "Lo sguardo di Ulisse" è considerato dalla critica uno dei migliori film di Anghelopoulos, nettamente al di sopra di altre sue opere anche dello stesso periodo, come ad esempio "L'eternità e un giorno". Personalmente, non vedo una gran differenza qualitativa: entrambi, assieme anche alla "Sorgente del fiume" o "Paesaggio nella nebbia", sono praticamente lo stesso film. Ciò non si intenda affatto come una critica al regista, piuttosto il contrario: Fellini insegna, assieme a tanti altri, che il grande autore fa sempre lo stesso film, ripete sempre se stesso, ma se è veramente "grande" ha sempre qualcosa in più da dire e da dare. Difficile a mio parere fare una graduatoria di riuscita, fra i film sopra menzionati, poichè condividono gli stessi (tanti) pregi e (pochi) difetti, alternando pagine splendide nella loro sintetica ricchezza espressiva ad altre meno riuscite per via di un eccesso di maniera, di poesia o di metafora. Se c'è un limite nelle opere di Anghelopoulos è forse quello di voler essere film-mondo, film "totali", dove si racchiude il senso stesso della presenza dell'Uomo in questo mondo; film senza dialettica, senza una progressione psicologica che conduca ad un vero scarto rispetto al punto di partenza, che non sia quello indotto da una consapevolezza che tuttavia non fa altro che riconfermare gli assunti di partenza. E' un cinema dove la Storia dell'umanità e tutto ciò che lo riguarda, nel pubblico come nel privato (l'arte, l'amore, gli affetti, la politica, la morte), vola via in un soffio, nell'incanto di un magistrale piano-sequenza, in tutto e per tutto felliniano per come include e pone sullo stesso livello (anche se su piani prospettici differenti) eventi, sentimenti, idee fra di essi contrastanti. Un cinema di frustrante bellezza, ma sempre con quell'inestirpabile senso di incompiutezza, di sospensione, di ricerca vana, di odisseica condanna a girovagare senza fine.

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