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Lo sguardo di Ulisse

Regia di Theo Anghelopoulos vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Lo sguardo di Ulisse

di maldoror
8 stelle

A mio avviso, questo è il miglior film del secondo Angelopoulos (cioè della fase post-La recita), quello in cui i difetti principali del suo cinema sono meno avvertibili, vale a dire un certo autocompiacimento stilistico, un certo “annacquamento” poetico e la tendenza al manierismo; tutti elementi presenti a mio avviso, ma compensati da una sincerità d’ispirazione che rende questo film uno dei suoi più struggenti, emozionanti e sinceri, probabilmente anche a causa della componente autobiografica più accentuata che altrove.
Lo stile di Angelopoulos è caratterizzato dalla concretizzazione in immagini di emozioni pure, ogni sua immagine è una trasfigurazione lirica ed epica della realtà, del paesaggio in spirito, e questo è forse il motivo che rende i suoi film, e Lo sguardo di Ulisse in particolare, delle esperienze visive ed emotive innanzitutto, e dunque poco inclini ad essere oggetto di analisi contenutistiche se non al prezzo di tradire in parte la forza dell’esperienza emotiva costituita dalla loro visione.
Come ha dichiarato il regista stesso, rispondendo a chi gli chiedeva come mai un film incentrato sullo sguardo fosse praticamente privo di primi piani, per rappresentare l’anima non è necessario riprendere lo sguardo dei personaggi, bensì i loro movimenti, per questo Lo sguardo di Ulisse è un film fatto solo di personaggi che si muovono ripresi in campi lunghi e lunghissimi (per questo motivo forse la strana inespressività di Keitel, che sembra un po’ a disagio nella parte, è voluta dal regista), e di piani-sequenza lenti e avvolgenti che nel seguire i loro movimenti, il loro girovagare, il loro avvicinarsi e respingersi, avviluppano lo spettatore immergendolo in una sorta di liquido amniotico, riuscendo a portarlo dentro il mondo rappresentato, in un continuum spazio-temporale in cui si fondono realtà e memoria, passato e presente, luoghi reali e trasfigurazioni.
 
La tematica è più o meno la stessa che il regista continua a trattare ormai da decenni, vale a dire quella dell’erranza e dell’esilio come essenza della condizione umana, e ovviamente anche come riferimento alla propria situazione di esiliato politico.
In un mondo desolato ormai prossimo alla fine come quello della penisola balcanica, devastato dalla guerra, dal caos e dalla disgregazione in seguito al crollo del comunismo, si aggira questo moderno Odisseo, la cui ricerca non può che essere finalizzata al ritrovamento dell’origine, di una purezza e innocenza smarrite. Ma il viaggio ovviamente non ha un fine vero e proprio, esso non è altro che il prodotto di una tensione erotica perpetua, il tentativo apparente di raggiungere un’immagine che ovviamente risiede dentro l’Uomo e non fuori; ma questa immagine non è altro che un simulacro che si ritrae nel momento in cui sembra di essere sul punto di raggiungerlo, o meglio, è l’uomo stesso che una volta raggiuntolo si tira indietro, perché arrivare a possederlo significherebbe porre fine al viaggio, cioè alla vita. La vita è fatta di “cerchi”, come dice il personaggio di Erland Josephson, cerchi destinati però a non essere chiusi così come a non avere inizio, un continuo movimento a spirale che riporta ogni volta al punto di partenza, ma che si è costretti ad abbandonare per riprendere il viaggio subito dopo e tornare alla perpetua erranza senza meta.
All’inizio del film, appena approdato nella sua città natale, il protagonista vede una donna che dice di ricordare “da sempre” ma di cui non ci viene rivelata l’identità, la segue come attratto da una misteriosa forza, si promette di parlarle ma non lo farà, la lascerà allontanarsi  disperdendosi tra la folla, finendo per scomparire in mezzo a una carica degli integralisti religiosi contro la polizia, come sommersa dal richiudersi dei flutti, mentre la sua voce fuori campo ci fa capire che prima o poi la reincontrerà; e infatti la incontrerà più volte lungo le varie tappe del suo cammino, ma ogni volta sarà costretto a lasciarla per proseguire il viaggio (“piango perché non posso amarti”).
Quando alla fine la meta sembra essere raggiunta, e il regista riuscirà finalmente a mettere le mani sui fantomatici tre rulli dei fratelli Manakias, il responsabile della cineteca, “custode di sguardi smarriti”, verrà ucciso insieme alla sua famiglia in una delle scene più toccanti del film, e insieme alla donna, a quel fantasma che il regista ha inseguito per tutto il viaggio, proprio poche ore prima che i rulli vengano sviluppati. Nell’ultima inquadratura vediamo il protagonista intento a visionare finalmente la pellicola, quell’origine, quel “primo sguardo” tanto agognato, ma di fronte a sé ha soltanto uno schermo vuoto, mentre la voce off recita il passo dell’Odissea in cui Ulisse annuncia alla moglie il suo ritorno a casa: ritorno a casa che deve avvenire, ma con l’amara consapevolezza che la ricerca non ha portato a nessun esito, forse perché il viaggio di per sé non ha una meta, forse perché l’origine e la purezza non esistono, ("è il primo film, il primo sguardo...ma è proprio vero?") in quanto probabilmente il venire al mondo (e qui il “primo sguardo” di cui il protagonista va alla ricerca è assimilato proprio al venire al mondo) è già un perdere la purezza, contiene già in sè il germe del vagabondaggio perpetuo, un essere destinati alla morte. Tutto il film è fatto di movimenti di macchina semicircolari che avvolgono i personaggi ma non totalmente, quasi a suggerire, per l’appunto, l’impossibilità di chiudere il cerchio.
Fra le scene più emozionanti e commoventi a mio avviso, quella della statua di Lenin smembrata, simbolo della fine di un’epoca e del crollo irrimediabile dei grandi ideali, col protagonista che salpa sulla nave lasciando a terra la donna amata, e quella straziante dell’uccisione finale del custode e della sua famiglia.
 
E’ stato rimproverato al film di essere irrisolto e di girare un po’ a vuoto, di lasciare non sviluppati i passaggi narrativi, e soprattutto di cedere eccessivamente ad un autocompiacimento intellettualistico e poetico; l’ultima critica la ritengo abbastanza fondata (e in parte attribuibile come al solito a Tonino Guerra), la lentezza dei piani-sequenza sembra essere a volte un po’ fine a sé stessa e in generale tutto il film sembra appesantito da un autorialismo piuttosto evidente. Non concordo sul primo punto invece, visto che non si tratta di un film che vuole narrare, ma che vuole descrivere un viaggio dell’anima, cosa che a mio avviso riesce a fare, rendendo pienamente partecipe lo spettatore del viaggio del protagonista, immergendolo in un universo di immagini spesso di intensità vibrante, che sono la concretizzazione di emozioni pure.
 

Su Harvey Keitel

Stranamente inespressivo, ma probabilmente per una scelta del regista.

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