1 stagioni - 12 episodi vedi scheda serie
Applausi a Hunnam in uno dei suoi migliori ruoli e alla serie, diretta con un occhio di riguardo alla narrazione senza interessarsi troppo allo spettacolo rapido e veloce del prodotto televisivo.
Charlie Hunnam in uno dei suoi ruoli migliori. Una delle sue performance più riuscite. Perfetto nel ruolo di Lin Ford, alias Dale Conti, grazie alla sua fisicità e sensibilità. Quel modo goffo e scimmiesco di camminare, tra lo spavaldo e il timido, rima con una introspezione matura che raramente ci aveva concesso.
Totalmente fisico agli esordi, da Queer as Folk (1999-2000) a Hooligans (2005), più introspettivo in Punto d’Impatto (2011) e Legami di sangue (2012), arriva all’apice del successo con l’iconico ruolo di Jackson Jax Teller in Sons of Anarchy (2008-2014) dove la sua fisicità e sensibilità iniziano a completarsi e a restituirci un attore maiuscolo compreso da pochi.
A parte il dittico deltoriano con Pacific Rim (2013) e Crimson Peak (2015) dove viene utilizzato come solo orpello è nella produzione cinematografica successiva che questa fisicità a volte fa a pugni con l’introspezione e a volte invece ci balla perfettamente. Qualche divertissement qua e là, ma indiscutibilmente ottimo in Civiltà perduta (2016), Papillon (2017), The Kelly Gang (2019) e Jungleland (2019). È all’apice di questo percorso silenzioso, ma autoriale che arriva Shantaram (2022-in corso) che sta a Sons of Anarchy come Lin sta a Jax, ed è nuovamente icona, nuovamente mito.
Ed è mito anche perché Shantaran dopotutto non è forse un western? Il genere che racconta il mito più e meglio di altri generi? Lin è infatti lo straniero che arriva in città, Bombay, e che si ritrova coinvolto nella lotta tra due bande di gangsters rivali cercando di spuntarla sempre a modo suo, con uno “sceriffo” che arriva dall’Australia per cercarlo fino al duello finale. E non è solo uno straniero in città, ma è anche un fuorilegge dal cuore d’oro, un paramedico mancato che si prodiga ad aiutare gli indiani – indiani! Proprio un western – di una baraccopoli in periferia di Bombay che lo accolgono come un figlio e un fratello.
Dicevamo all’inizio: quel suo modo goffo di camminare, ma anche quello sguardo infantile e anziano allo stesso tempo e l’espressione che lo accompagna, sempre, un’espressione di straniamento, di riso, beffa, spavalderia e insieme anche disagio, sogno, timore, nostalgia, paura, orrore. Le torture subite le intravediamo sul corpo, ma le vediamo benissimo sul suo volto quando i ricordi di Hunnam ritornano a un rimosso violento che si palesa nei suoi occhi. Occhi che si spalancano sull’orrore esattamente come quando guarda con amore e riversano amore sull’amico indiano e Carla, la donna che gli rapisce il cuore.
La regia e, ovviamente il romanzo di partenza e quindi la vera storia di Lin Ford ovvero Gregory Dvid Roberts, fanno il resto, ricostruendo una storia lunghissima e assai profonda e introspettiva con i ritmi di un crime drama esotico che non ha fretta di arrivare alla scena madre, ma che sa aspettare e raccontare. Raccontare e osservare i volti, gli sguardi, i gesti, i corpi dei personaggi. Soppesare ogni loro parola e indugiare appena possibile sul corpo attoriale e su tette le sue infinte relazioni con il mondo finzionale che lo circonda.
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