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Summertime

3 stagioni - 24 episodi vedi scheda serie

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La recensione su Summertime

di scapigliato
7 stelle

Già non partiamo bene. Al liceo linguistico Marco Polo, frequentato dai protagonisti, si studiano inglese, francese e tedesco. Solita miopia italiana che non si accorge dell’importanza della lingua spagnola, ma fa solo meri calcoli commerciali: le orde di vecchi turisti tedeschi, inglesi e francesi che si riversano sull’Adriatico durante l’estate. Già di suo è un’immagine tristissima, quasi di servilismo e sudditanza ai padroni d’Europa, in più le vite di questi poveri ragazzi sono scandite proprio dall’uso di queste lingue. E tutto solo per scopi lavorativi, quando invece una lingua si studia per il piacere di studiarla, di accedere a una nuova cultura, e non certo solo per il lavoro.

Altro aspetto sconfortante della serie, è l’ispirazione a Tre metri sopra il cielo (1992) di Federico Moccia, riconosciuto autore a un passo dal Nobel per la letteratura.

Inoltre, i primi episodi, modulati sulla più banale commedia vacanziera italiana alla Sapore di mare (Carlo Vanzina, 1983), con dialoghi al limite del patetico – ma forse patetica è l’adolescenza che di tutto fa una tragedia, che complica sempre tutto e che pensa di tenere il mondo per le palle [e lo dico perché anch’io sono stato adolescente, forse anche più burrascoso di tanti personaggi dei teen drama contemporanei] – e con svolte narrative degne di una fiction italiana generalista.

Cosa si salva? Tutto il resto. A parte lo scenario vacanziero – lettini, ombrelloni, chioschi, animazioni balneari imbarazzanti, turisti tutti con il costume accalcati sulla spiaggia [ma queste sono vacanze? Ma io neanche morto] – si salva innanzitutto la sempre ottima interpretazione di Ludovico Tersigni, il migliore attore della sua generazione, che insegue Carpenzano, Scicchitano, Arcangeli e Richelmy, tutti capeggiati da Germano e Marinelli. Tersigni, viso dolente che si apre in sorrisi spiazzanti, è la maschera perfetta per rappresentare il ragazzo e in futuro l’uomo italiano non allineato, giocando tutto sulla mimica personale e naturale in sottrazione. Presenza scenica antidivistica, sta quasi nell’ombra, ai margini, non ruba la scena ai colleghi, ma la sua presenza si vede e si sente proprio grazie a quegli scarti attoriali che hanno solo gli interpreti più dotati e naturali, per i quali recitare è solo la prosecuzione ragionata della rappresentazione della vita. Tersigni si presta anche a un nudo integrale chiacchierato, dato che l’inquadratura è troppo lontana, la luce bassa e non si capisce se ci sia una protesi, come dicono in alcuni forum, oppure un panno scuro a coprire l’intimo. Fatto sta che il personaggio chiave della serie, messo a nudo fin dal primo episodio, vuole forse ricordare allo spettatore che questa storia va letta più dal suo punto di vista che da quello della protagonista femminile Summer.

Coco Rebecca Edogamhe è uno degli altri elementi che vanno assolutamente salvati. Bellissima attrice italiana di origini senegalesi da parte di padre, se accettiamo la non proprio azzeccata modulazione vocale, troppo impostata, la sua presenza rischiara la serie ogni volta che è in scena. Una giovane attrice italiana che apporta una presenza narrativa delicata, ma allo stesso tempo combattiva alle serie tv italiane. Nonostante SKAM Italia  (Ludovico Bessegato, 2018-2020 )sia imbattibile, Summertime è comunque migliore di Baby (Andrea De Sica, 2018-in corso), ma non di altri teen drama Netflix, come Élite (Montero/Madrona, 2018-in corso), o Movistar+, unico vero competitor spagnolo del colosso americano che con Merlí – sapere aude (Héctor Lozano, 2019-in corso), prosegue nella realizzazione di prodotti seria audaci, autoriali, immaginifici e di grande solidità narrativa come i precedenti (La peste, Fariña, Gigantes, SKAM España, etc…). Grazie a Coco Rebecca Edogamhe riusciamo a respirare anche in Italia un po’ di novità, di sfida agli stereotipi etnici in funzione al gioco rappresentativo. Si dice che questa generazione sia più progressista e tollerante dell’attuale. C’è da sperarlo sul serio.

Anche Giovanni Maini è un’ottima sorpresa. Il fool della situazione – se fossimo in un film horror morirebbe per terzo dopo l’atleta e la cheerleader – è l’elemento “altro” senza il quale la storia d’amore tra la protagonista Summer e il motociclista in crisi sarebbe solo patetica e con poco mordente. Invece, proprio grazie al terzo incomodo, la storia mantiene una sospensione da thriller sentimentale, ovviamente proporzionata al pubblico di riferimento, che restituisce un minimo di complessità ad una trama lineale e semplicista. L’attore bolognese ha un fisico del ruolo adattissimo al suo personaggio. Goffo, un po’ buffo, dinoccolato, naïf nei movimenti, nelle posture e nei gesti, sa dare un’anima rocambolesca all’adolescente medio, pieno di sogni e ossessioni pseudo infantili, per poi trovare il suo posto, temporaneo, nel mondo attraverso la copula. Un po’ banale, ma così è se pare a loro…

La colonna sonora evergreen che coinvolge brani come il mai troppo compreso capolavoro di Jimmy Fontana, Il mondo, o altri grandi brani delle estati anni ’60 come Odio l’estate di Bruno Martino, piace e si apprezza per le scelte anticonvenzionali, ma non è stata una scelta audace fino in fondo, e forse un po’ troppo imitativa della commedia vacanziera ispirata a quegli anni.

Anche la fotografia, con ottimi colori forti, soprattutto nelle scene notturne con luci psichedeliche e ipersaturate, ricordano da vicino Euphoria (Sam Levinson, 2019-in corso), ma l’accostamento è e resta arduo.

Summertime, dopotutto, pur essendo una serie discreta che migliora negli ultimi tre episodi, resta comunque una sfida persa. Non ha la grandezza autoriale né lo sguardo registico di SKAM Italia, nonostante la sceneggiatrice Rivaroli venga proprio dalla serie teen targata Tim Vision, e non gode nemmeno della novità, dello scardinamento degli stereotipi, del gioco sul genere, dell’audacia visiva di altre serie non solo americane, ma anche spagnole, francesi e tedesche, che invece sanno apportare grandi novità visive come narrative, forse anche grazie all’assenza culturale del patetico pudore italiano.

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