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Manolete, tori, Spagna e divagazioni varie
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Sul satellitare stanno trasmettendo in questi giorni il film MANOLETE del regista olandese Menno Meyjes. Più che di Manolete, nel film  si parla della relazione fra il torero e Lupe Sino (Antonia Bronchalo Lopesino). Manuel nasce a Cordoba (Ay Cordobita la llana que le das al mundo entero los toreros de mas fama!)nel 1917 e lei in un paesino della provincia di Guadalajara ( regione dell’Alcarria). Il film è potabile per gli ultimi 20 minuti, dove il regista riesce a trasmettere la tensione emotiva necessaria. Il resto sono pause e cali di tensione che finiscono per rovinare un prodotto che poteva essere buono.

Adrian Brody, nel ruolo di Manolete, risente del suo non essere latino e troppo spesso lascia trasparire quella che era la sua dote migliore ne Il PIANISTA, ossia il suo sguardo timido, fragile e intimamente indifeso. Non c’è nulla di spagnolo in lui, come il gesticolare, l’espressività tipicamente latina che lo avrebbe reso credibile.  Il fatto è che per interpretare al meglio la figura di un uomo passato alla storia della Spagna, serviva conoscere meglio quel Paese, indovinarne le caratteristiche profonde, viscerali, intime e non piegarsi sui comportamenti noti. Un uomo che ha reinventato l’arte del toreare doveva avere per forza un carisma, un magnetismo, un portamento regale (che trasferì nell’arena) che qui mancano completamente. In ogni momento quindi, ci rendiamo conto di trovarci di fronte a un fingimento, una fiction “descarada” (sfacciata) e quindi, per colpa anche dei dialoghi e di continui salti temporali che finiscono per confondere lo spettatore e togliere quella preparazione al climax necessario, il film non s’invola, non dispiega le ali e resta malinconicamente a bassa quota.

Ma, soprattutto, credo che per raccontare una storia di spagnoli (e ancor di più se toreri) occorra vivere in quel Paese e respirarne gli odori e i profumi, assaporarne gli aromi e i gusti, ascoltarne gli umori, la parlata e mai smettere di cercare il segreto intimo di questa terra, così difficile da spiegare e, soprattutto, di capire.

Linares la conosco per esserci  passato un giorno d’estate di tanti anni fa. Ma, a dire la verità, non la conosco per niente perché mi ero fermato qualche minuto alla stazione ferroviaria, che allora serviva, come adesso, due città : Linares e Baeza. Credo che fossimo in luglio; era uno degli ultimi anni Settanta.  Ero partito dalla Stazione Centrale di Milano e, dopo aver attraversato la costa francese, ero arrivato a Barcellona. Lì, avevo preso un treno che mi avrebbe portato a Malaga. Ricordo che passai per luoghi come Sagunto (Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur), Valencia, Castellon de la Plana, Chinchilla ecc. Ma Linares è un luogo speciale per gli spagnoli e soprattutto per gli amanti della corrida. In effetti il 28 agosto (ma n realtà il 29) 1947, nella locale plaza de toros, moriva Manuel  Rodriguez  Sanchez detto Manolete, colpito da una cornata di un toro Miura. Manolete, come Belmonte e Joselito, sono qualcosa di più di semplici toreri. Rappresentano infatti il culmine dell’arte del “toreo”. Ancora oggi, in qualche locale di appassionati a Madrid o in Andalusia, trovi qualcuno che ti assicura di averlo visto all’opera, magari a Las Ventas, o alla Maestranza. E mentre te lo dice, i suoi occhi si illuminano e sorridono.

Manolete l’ho visto in qualche raro spezzone di documentario o in alcune foto d’epoca, rigorosamente in bianco e nero. Un fisico alto e asciutto, due occhi neri infossati in uno sguardo profondo, triste, come se preannunciasse una morte prematura. Un portamento regale, nobile come solo gli spagnoli predestinati possiedono. Movimenti lenti  misurati, precisi come lame di bisturi ed eleganti come il dispiegarsi di due ali di enormi farfalle.

So poco e quasi nulla di corrida e di tori. Un giorno, un mio amico spagnolo, abbastanza  ferrato, mi spiegò gli elementi basilari e lo fece bene, tanto che riuscì a meravigliarmi e a destare il mio interesse. Ma il mio non è un interesse per la corrida in sé. Ciò che mi affascina è tutto ciò che circonda questo mondo, i personaggi che lo animano, le ritualità, le superstizioni, gli aneddoti, le interferenze con la società spagnola, la sua storia, il suo folklore, i suoi usi e costumi e la religione.

A uccidere Manolete fu Islero, un toro Miura nero come la pece e guidato da un demonio incurante delle glorie e dei miti. Quel giorno di luglio assolato a Linares non sapevo nè tantomeno immaginavo che circa trent’anni prima, in una giornata simile, afosa come solo i villaggi andalusi dell’interno sanno essere, che c’era un reliquiario nella locale plaza de toros e che quel reliquiario conteneva un frammento del corpo di Manolete. Vivere in Spagna e non sapere chi fosse Manolete è imperdonabile. Ma allora non sapevo nemmeno chi fosse, ad esempio,  José Antonio Primo de Rivera,  fondatore della Falange e ancor meno conoscevo Marcelino Camacho, leader del sindacato comunista Comisiones Obreras. Non sapevo niente di niente. Ero in Spagna e non sapevo niente. Ora che qualcosa so, non vivo più laggiù.

Se qualcuno mi chiedesse di scrivere due righe su Manolete, gli direi di rivolgersi a un appassionato di corrida e di cose spagnole.  Ernest Hemingway, pur con tutto il suo amore per la Spagna e i suoi scritti sulla corrida, non riuscì mai a vedere Manolete all’opera. Un conto è vedere Ordonez o Paco Camino o Palomo Linares e un conto è vedere Manolete.

Un "pase de pecho" o una "veronica" o addirittura una “manoletina” come solo lui riusciva a realizzare, sono patrimonio dell’umanità, valgono il prezzo di un viaggio in un treno spagnolo degli anni quaranta, da Madrid a Linares, attraverso la Castiglia, attraverso le pietraie riarse di Despenaperros e l’immensa pianura spopolata e perennemente polverosa che è l’Andalusia.  Entrate, entrate in quel bar di Còrdoba, proprio accanto alla moschea e chiedete di parlare con un “entendido”, un “aficionado a los toros”. Se gli offrirete un calice di manzanilla o di “jerez seco”, magari accompagnato da un pincho moruno, egli vi prenderà per un braccio, vi costringerà a sedervi e vi assicurerà di aver visto personalmente toreare Manolete. D’altro canto, penserete voi, viste le cinquecento e più corride cui partecipò, la cosa può essere credibile. Voi fingerete di credergli ed egli fingerà che voi gli crediate, perché è così che funziona quando si parla di miti. Ognuno di noi aggiunge ogni volta una parola o un gesto e, poco a poco, la storia di un povero torero, dannatamente coraggioso e definitivamente triste, assumerà i contorni della gloria.

Aveva trent’anni quando la cornata che Islero gli inferse gli troncò la vita. Non so se la testa di quel toro sia ancora visibile, magari sì, perché troppo grande fu l’avvenimento. Magari in uno di quei bar del centro di Madrid, tra Callao e la Gran Via, frequentati da "apoderados", "aficionados" amici dei toreri o semplici appassionati, dove trovi le botti di vino di Valdepenas generoso ed enormi vasi di vetro stracolmi di  grosse olive di Jaen che fanno bella mostra di sé sui banconi, dove camerieri indaffarati  si agitano perennemente fra capannelli di giovani e vecchi che parlano ad alta voce, sputano noccioli di olive per terra e ingollano chatos uno dopo l’altro e si infervorano nel magnificare un capeo di Curro Romero o una media veronica di Santiago Martin El Viti o una stoccata tanto fatale quanto precisa di  Francisco Rivera detto Paquirri, cui toccò malauguratamente la stessa sorte di Manolete.

Ma forse dovreste recarvi nel barrio di Santa Cruz a Sevilla (Siviglia),in uno di quei locali dove i camerieri scrivono ancora le ordinazioni con un gessetto su una lavagnetta rettangolare e vi chiedono di far presto ad ordinare perché il locale è stracolmo, fa caldo anche se sono le nove di sera e sono tutti assetati e desiderosi di divertirsi. Divertirsi conversando con una cana di birra gelata alla spina, in piedi, accanto a un tavolino dove dei pesciolini fritti ancora fumanti aspettano di essere trangugiati senza ritegno e finire in capaci stomaci gonfi di birra Cruzcampo. Il turista, accaldato e stravolto dalla fatica, chiede invano un luogo appartato dove riposare le membra, dopo aver visitato la Giralda, la Torre del Oro, Plaza de Espana e la Cattedrale. Questo irrita i camerieri. Nei locali del barrio ci si tocca col gomito tanto si è stretti ma ci si conosce tutti. E tutti sanno apprezzare quel tipo di olive, o quel particolare gusto di tortilla. Il vino poi accende il piacere di trovarsi e dimenticare per un po’ il lavoro ingrato, la moglie brontolona o il mutuo della casa. 

Ma se volete cercare l’anima della Spagna dovreste recarvi in Castiglia, in una delle innumerevoli chiese di Toledo o di Segovia e dimenticare chi siete per capire che cosa c’è in fondo alla religiosità che per secoli ha marcato queste terre avare di prodotti e ricche di spiritualità. Se entrate nella sacrestia di Toledo, vedrete riproduzioni di El Greco e quadri dai toni oscuri  con  personaggi severi e austeri che sembrano ammonirvi riguardo alle vostre mondane intenzioni. Rileggetevi qualche passo di EN TORNO AL CASTICISMO di Miguel de Unamuno per capire perché si parla di “sequedades del alma”. Ma forse, per i meno inclini alla riflessione intima e velocisti del turismo usa e getta, basterebbero scene tratte da TRISTANA, magari dal libro di Galdos o, se proprio non si vuole, dal film omonimo di Luis Bunuel.

Oppure, per i più appassionati a livello musicale, sarebbe utilissimo ascoltare un pasodoble come SUR o le note struggenti e malinconiche del CONCIERTO DE ARANJUEZ di Joaquin Rodrigo.  Ma per capire qualcosa, occorre avere qualcosa. Per capire la Spagna, occorre avere la nobiltà d’animo e la sensibilità per farlo, occorre avere qualche stilla di “hidalguia”, umiltà  ed apertura mentale.

Menno Meyjes è forse un buon regista, ma nel suo film manca quello che è più importante: manca l’anima.

 

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