Espandi menu
cerca
A destra e a sinistra
di End User
post
creato il

L'autore

End User

End User

Iscritto dal 16 giugno 2008 Vai al suo profilo
  • Seguaci 202
  • Post 271
  • Recensioni 2
  • Playlist 8
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

Sull'onda dell'eccezionale interesse che avete dimostrato al testo della settimana scorsa, pensavo di proporvi una approfondita disamina della situazione politica del nostro paese. Invece no, assolutamente no, sto scherzando, non ci penso neanche. Però vi ringrazio per avermi fatto capire quanto il cinema sia, per molti di voi, pura e semplice evasione dai confini e dai limiti che l'attualità ci impone. E quindi questa volta vi parlerò di limiti e di confini, di destra e di sinistra (ma anche di alto e di basso) ma solo per riflettere su come inquadrature e movimenti di macchina - la materia prima del linguaggio cinematografico - stimolano, nutrono, frustrano, la nostra curiosità, il nostro bisogno di evasione. A volte di fuga.

Quando vidi Roma di Alfonso Cuarón, vincitore di due premi Oscar nel 2019, quel che mi fulminò, al di là della storia in sé, fu la costruzione del contesto, del luogo in cui la vicenda si svolge - Città del Messico, anni '70 - che tracima, deborda, che entra furiosamente nel campo visivo, a prescindere dalla porzione di schermo che l'autore decide di riservargli. Ad entrare negli occhi e a imprimersi nel cervello, in Roma di Cuarón, c'è un'intera città, un intero periodo storico. Per quanto possa puntare il focus della storia sulle vicende della famiglia protagonista, si sente fortissimo che a destra e a sinistra di qualsiasi inquadratura c'è un paese che pulsa, che spinge ai margini e che induce lo spettatore a desiderare fortemente che il campo visivo orizzontale si allarghi per mostrare di più, per mostrare tutto quello di cui si intuisce l'esistenza ma che, per ovvie ragioni di limiti, non è possibile mostrare.

Ovviamente giocare con questo desiderio è parte dell'arte cinematografica. Il rapporto tra quel che l'autore decide di mostrare e quel che relega fuori campo è una componente fondamentale dell'alchimia, della formula, della visione di ciascun regista. A volte, però, il nostro desiderio di estendere la visione al di là dei margini naturali dell'inquadratura, viene sollecitato non tanto, non solo, da quel che l'autore permette di vedere, ma dalla relazione che instaura tra quel che si vede e quel che si sente.

Nella scena di apertura di Rotting in the Sun, il nuovo film di Sebastián Silva da pochi giorni su Mubi, quel che avviene sullo schermo è perfettamente funzionale all'introduzione della storia ma quel che si sente porta istantaneamente il cervello altrove. Il film inizia così. C'è lui, il regista stesso, che sta seduto nei giardinetti di una piazza di un quartiere molto popolare di Città del Messico (ancora!). Dietro di lui avvertiamo lo sciabordio apparentemente meditativo di una fontana davanti alla quale il regista sta leggendo un libro: L'inconveniente di essere nati di Emil M. Cioran. Di fronte a lui, nella piazza, si dipana un'umanità varia che fa cose casuali: c'è uno strano individuo con una maschera verde da wrestler che rovista nella spazzatura, un tipo di una certa età che suona improbabili strumenti e che produce suoni difficilmente ascrivibili alla categoria musica, una cantante di strada che canta (maluccio) Zombi dei Cranberries. Dopo questa carrellata, il primo piano ritorna sul regista e in voice over si sente la sua voce mentre legge un passo del libro in cui Cioran sostiene che sono solo gli ottimisti che, ad un certo punto, decidono di farla finita. Quando vengono a mancare i motivi che li hanno portati ad essere ottimisti.

Questo passaggio sonoro da fuori a dentro, da rumori d'ambiente a voce interiore, che va in contemporanea con il passaggio dalla panoramica dell'umanità in piazza ad un asfissiante primo piano del protagonista che è chiaramente vittima di un intenso conflitto interiore (la lettura del testo di Cioran non ti farà gran bene, amico) gioca fin da subito con questo contrasto esterno/interno, mettendo in evidenza i limiti del primo piano rispetto alla debordante presenza del contesto e introducendo benissimo alcuni elementi che saranno poi i temi dominanti del film: l'opprimente egocentrismo di certe classi sociali (mi fermo qui, niente politica, mi raccomando!), la totale incomunicabilità alla quale siamo spinti dall'ossessione per una egotica trasparenza tutta social (che non è un caso si sviluppi principalmente attraverso scroll di schermi verticali) e la completa incapacità di provare empatia tra esseri umani, ad onta della apparente vicinanza da cui ci riprendiamo in modalità selfie. E questo risultato lo ottiene proprio giocando con i limiti del formato cinematografico, con la persistente presenza sonora di Città del Messico che è una specie di caotica ancora di salvezza rispetto all'abisso inconscio sul confine del quale il regista slitta, scivola. E nel quale, in un modo o nell'altro, precipita.

Il film potrebbe essere abbastanza autobiografico ma con Sebastián Silva non si può essere certi di nulla perché tutti i suoi film sono giocati su una costante ambiguità e non si capisce mai cosa possa essere vero e cosa falso. E infatti, ad un certo punto, in Rotting in the Sun, arriva un twist pazzesco che, dopo una mezz'oretta, fa svoltare il film facendogli assumere tinte gialle e thriller in cui questa presenza del fuori campo, sebbene appaia ridotta a semplici rumori di contorno, produce nello spettatore una escalation di sentimenti. Che inizia titillando la curiosità del viaggiatore - che rumore sarà quello lì, seguiamolo! -  e diventa, anche grazie all'eccezionale twist, un vero e proprio bisogno di evadere, di uscire dal soffocante piccolo condominio in cui la vicenda e la miseria umana si dipanano.

A fare da perfetto contraltare a questa visione ho guardato anche La meravigliosa storia di Henry Sugar, il nuovo progetto Netflix di Wes Anderson (anche in sala da oggi con Asteroid City), che invece gioca tutto sulla composizione di un quadro il più preciso, autonomo e autosufficiente possibile. In Wes Anderson tutto avviene sempre nel campo visivo maniacalmente composto. Le storie, che spesso, oltretutto, scavallano epoche, che sono racconti di racconti di racconti, si concatenano tra loro in maniera simmetrica, a partire dal centro per aprirsi verso l'esterno ma mai oltre i limiti dell'inquadratura. Al massimo, proprio come nel finale del film Netflix tratto da un racconto di Roald Dahl, si ripiega, si contrae verso un invisibile punto che è proprio al centro del quadro che l'autore ha confezionato per noi, come quando Ralph Finnies seduto sulla sua seggiola, dopo averci portato a spasso nel tempo, dopo averci inondato di parole e dopo averci sedotto con la sua magnetica affabulazione, incrocia le gambe, raccoglie le mani e si rinchiude come un fiore carnivoro con la propria preda.

Due modalità opposte di costruire l'immagine accomunate dall'obiettivo di raccontare una storia. Il richiamo del caos anima il primo (Silva), il bisogno di ordine guida il secondo (Anderson).

Il bisogno di tenere sotto controllo l'orizzonte deve essere endogeno alla nostra natura. D'altronde la nostra capacità di seguire un'azione orizzontale copre 180 gradi, quella verticale circa la metà. Forse io sono rimasto fermo ad uno stadio evolutivo primitivo dell'essere umano, quando gli imprevisti venivano principalmente da destra o da sinistra. Deve essere per quello che, da vecchio viaggiatore, sento prima di tutto il bisogno di confrontarmi con i limiti più esterni. Che sia una spiaggia, una costa o anche solo un nuovo pueblo, sono spinto inderogabilmente a camminare a destra e a sinistra per sondare i confini e i limiti del panorama.

Lo so, è chiaro: il centro non fa per me.

Ti è stato utile questo post? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati