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Contando i semafori
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Siete un giovane in cerca di lavoro e state per avere un colloquio importante, molto importante. Vi fanno entrare in una stanza: chi vi deve intervistare non è ancora arrivato. Sedete al tavolo, aspettate, siete agitato. Finalmente arriva: è una donna. Entra, si toglie i guanti li poggia sul tavolo, poi prende una moneta da 50 centesimi e posa sul tavolo anche quella, ben in vista. Dopo i brevi convenevoli di rito, parte la prima domanda: “Quanti semafori ci sono a Milano?”

Ero a cena l’altra sera con una simpatica combriccola di gente. Non ricordo come siamo arrivati sul discorso, ma uno di loro a un certo punto ha raccontato di aver saputo che proprio quella domanda era stata fatta a un giovane che cercava di farsi assumere da Google. Tutti hanno avuto un moto di ribellione. Ma come, ma che domanda è, ma che ne so io di quanti semafori ci sono, ma a cosa serve fare domande così. Tornato a casa sono andato a vedere se in rete c’era qualcosa al proposito. Non ho trovato nulla in merito a quella domanda precisa, ma ho scoperto che i responsabili del personale nei colloqui di assunzione (mai fatto uno in vita mia) fanno domande assurde per vedere come ne escono i candidati, con quale tipo di reazione.

Era il 1918. Un giovane segretario - giovanissimo, 19 anni - era stato mandato dal suo capo a Los Angeles. Da una manciata di anni Hollywood stava diventando il posto dove fare i film, e il ragazzo doveva seguire come stavano andando le cose per conto del suo capo, che aveva da fare altrove. Quando tornò a Los Angeles, il capo prese il ragazzino e gli chiese: “ora che sei stato un po’ qui e hai visto come vanno le cose, secondo te, cosa dovremmo fare per migliorare?” Il ragazzo rispose: “Secondo me dovreste inventare una nuova posizione, una specie di direttore dello studio, che dovrebbe avere la responsabilità di supervisionare e dirigere le operazioni quotidiane.”. L’uomo lo guardò, ci penso un po’ su e poi disse: “Benissimo, sei assunto: quel posto è tuo”.

L’uomo era Carl Laemmle, fondatore e presidente della Universal Pictures. Il ragazzino era Irving Thalberg. Era figlio di immigrati ebrei di New York e aveva una malattia congenita: sapeva che sarebbe morto giovane. Così aveva deciso di mollare gli studi: avrebbe assaggiato la vita vera, per quel poco tempo che gli restava, avrebbe lavorato, possibilmente nel cinema, che stava esplodendo. In quel momento, rispondendo alla domanda di Laemmle, non solo aveva inventato il suo prossimo posto di lavoro, ma aveva “inventato” un ruolo centrale della storia del cinema: il direttore di produzione.

Nell’ultima newsletter che vi ho scritto e che raccontava la storia della Walt Disney attraverso i quattro amministratori delegati che l’hanno guidata sono stato ingiusto. Non rinnego nulla rispetto a ciò che volevo mettere in luce - prendendo la Disney a esempio di un percorso industriale classico che dalle visioni di un creatore porta alle ottimizzazioni dei manager. Guardatevi anche altrove, guardate la Apple. Fanno soldi come non mai, ma da quando se ne è andato Steve Jobs non hanno più inventato una cosa che sia una: stanno solo migliorando i prodotti e monetizzando le idee di Jobs.

C’è però una differenza specifica, che non va trascurata. Un film non è come un romanzo, o un quadro: è un’opera collettiva. Non possiamo riportare direttamente il successo di un film - misurato con qualsivoglia metro - sempre e solo al talento di chi ha scritto e diretto, o interpretato. Un film non è come un romanzo, o un quadro, dove per lo più mente e mano sono di una persona sola. Un film è quasi sempre un prodotto industriale. E chi dirige la baracca anche senza figurare nel cast artistico - se ha anche lui visione e creatività - è altrettanto fondamentale di chi poi la firma e viene dai più identificato come l’autore.

A poco più di vent’anni quel ragazzino di Thalberg, divenuto responsabile della produzione di decine di film all’anno, prese con garbo e fermezza da parte il regista Eric Von Stroheim - che la storia del cinema spesso riporta come il primo dei registi “Autori” - e gli disse che stava sforando il budget e che avrebbe dovuto fermare le riprese: di materiale per il suo film ce n’era abbastanza. Immaginate il regista, sicuro, pieno di sé, già coperto di gloria, famoso per essere un piccolo dittatore sul set, vedersi bloccato con fermezza dal ragazzino. La cosa è ancor più teatrale e spettacolare se pensate che Von Stroheim - che nel film era anche interprete - si presentò davanti al neo direttore generale della Universal con il costume di scena da guardia imperiale russa. Il film, Femmine folli, fu così ridotto e tagliato: nella testa di Von Stroheim avrebbe dovuto durare 5 ore smezza, fu portato a tre. Fu un grande successo e dal 2008 è conservato nella Biblioteca del Congresso tra le opere del National Film Registry, considerate alla stregua di un patrimonio dell’umanità.

Il successo di Thalberg alla Universal e poi al fianco di Louis B. Meyer fu tale che nel 1925, quando - dopo un’intricata serie di acquisizioni e fusioni - venne fondata la Metro-Goldwyn-Meyer, Thalberg, a 26 anni, fu posto a capo della produzione. Produsse in quelle vesti circa 400 film. Per tutta la durata del suo incarico Thalberg semplicemente era la MGM. Da L’uomo che prende gli schiaffi, primo film della MGM del 1924, a Maria Antonietta, del 1938. In entrambi i film recitava sua moglie, Norma Shearer (conosciuta appunto sul set del primo film e sposata nel 1927). Dell'ultimo però non poté essere alla prima: morì, a 37 anni, nel 1936, come era scritto, nel suo destino di ragazzo fragile. In mezzo tra questi due estremi stanno capolavori famosissimi - da Ben Hur a La tragedia del Bounty. Non solo. Una enorme quantità di star devono a lui la loro carriera: da Joan Crawford a Greta Garbo, da Lon Chaney a Clark Gable.

Il lascito di questo ragazzo meraviglia (boy wonder, era il suo soprannome) è stato gigantesco. A lui è intitolato l’Irving G. Thalberg Memorial Award, che l’Academy assegna insieme ai premi Oscar (non tutti gli anni, solo quando davvero pensano che ne valga la pena). A lui pensava Francis Scott Fitzgerald quando scrisse The Last Tycoon. Ed è lui che interpreta Robert de Niro nel film Gli ultimi fuochi, tratto dal romanzo incompiuto di Fitzgerald. E tutto questo nonostante Thalberg non abbia mai voluto comparire nei crediti delle opere da lui prodotte. Come una specie di monaco, come un costruttore di cattedrali, voleva restare anonimo. “Un produttore - disse una volta - deve dar credito, non riceverne”. Guidato dalla ricerca della qualità, fu riconosciuto da tutti come un talento assoluto, una mente finissima, e David Selznick disse di lui che “al di là di ogni dubbio, Thalberg è stato la più grande forza individuale nel mondo del cinema”.

Non bastano queste poche righe a coglierne il tratto e la figura. Ma una cosa è certa: lui ha reso grande la MGM. E pochi mesi fa proprio la MGM è stata acquistata da Amazon. Chissà che domande fanno alla Amazon per assumere personale.

 

Vi lascio con una risposta e una domanda. I semafori a Milano sono 720 (io avrei azzardato cifre ben maggiori). La domanda invece è: e la moneta da 50 centesimi? Ve l’eravate dimenticata? La risposta è qui: dura tre minuti. Godetevela

 

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