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La prima volta che vidi Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini (non molto tempo fa, lo ammetto) restai letteralmente folgorato dalla quantità di volti e corpi che vi facevano continuamente capolino. Volti e corpi di non attori, con la loro eredità di espressioni e gesti che gli attori professionisti semplicemente non hanno e non possono ricreare, a prescindere dalla scuola, dalla bravura, dalla capacità di interpretare.

Per Pasolini la scelta di lavorare spesso e volentieri con attori non professionisti mescolandoli ad attori famosi era pienamente aderente alla sua poetica, alla sua ricerca. Se da un lato aveva bisogno della naturale "brutalità e leggerezza del dilettante", quando lavorava con attori professionisti non li sceglieva perché fingessero di essere qualcosa di diverso da ciò che erano ma esattamente per quello che erano. Meglio ancora se, proprio come Totò in Uccellacci e uccellini, non sapevano molto di lui e della sua opera, perché era esattamente quel "non sapere" che diventava garanzia di freschezza e sensibilità.

Un bisogno di ripulire, di andare a cercare qualcosa di autentico, sotto alla stratificazione di maschere che si stavano rendendo necessarie per vivere (o sopravvivere) nell'Italia che si stava manifestando, tra le rovine delle periferie e quelle delle ideologie.

Mi piace questa idea che gli attori non professionisti possano essere uno strumento al servizio di una crisi. Di valori, sociale, morale, o anche semplicemente cinematografica. Un rimedio, una cura rigenerativa ad una deriva, sia essa un semplice eccesso di potere attribuito allo star system, al business dell'entertainment o alle ingerenze della politica nell'arte e nel processo creativo.

Come nel caso di Milos Forman e dei suoi primi film che appartenevano alla corrente della Nova Vilna (la nuova onda del cinema cecoslovacco degli anni '60), per la quale l'utilizzo degli attori non professionisti era necessario per liberare la propria arte dalla ingombrante presenza di un regime totalitario e dalla tendenza del potere a modulare e plasmare la rappresentazione del popolo e ovviamente anche i suoi bisogni. Un uso prepotente degli attori non professionisti influenzò in quel caso persino il modo di recitare degli attori professionisti, fungendo da spunto di ricerca di nuove modalità espressive che attingessero ad aree e zone della propria umanità più profonda e sedimentata, resa quasi irraggiungibile dall'ingerenza e dalle intrusioni del potere a fini propagandistici.

E parlando di Umanità non posso non citare uno dei registi che riesce sempre a scuotermi nel profondo, anche quando bazzica il terreno della commedia, Bruno Dumont. Un altro autore che crede nel cinema "come purga e catarsi" e che guardandosi intorno pensa che "i film che ci circondano siano solo specchietti del reale in cui tutto è liscio e gentile". Che ama usare corpi e volti autentici di attori non professionisti anche per i ruoli più importanti dei suoi film (proprio per L'umanità affidò il ruolo principale al disoccupato non attore Emmanuel Schotté, premiato a Cannes per la sua interpretazione) ma che se usa una star come Juliette Binoche le chiede di interpretare un'artista (Camille Claudel), contando proprio sul valore aggiunto, su come l'artista arricchisca quel personaggio. Innestando in più uno scambio con il livello misterioso che lo spettatore aggiunge al film, ossia quel che pensa, che ha interiorizzato dell'attrice famosa. Un comportamento artistico che attribuisce grande considerazione allo spettatore perché aggiunge un livello di interazione che riempie gli spazi vuoti, perché fa dello spettatore non un soggetto passivo ma un soggetto "imprevedibile". Un vero e proprio toccasana nell'epoca di un intrattenimento governato dagli algoritmi e dall'utilizzo massiccio dei dati.

E così arrivo all'ultimo film interpretato (magnificamente) per la maggior parte da attori non professionisti che ho visto proprio su Netflix, ma che ovviamente non mi è stato affatto proposto dal mitico algoritmo ma dall'amico Mauro (grazie Gerva!). Si intitola Piola, è un film cileno che racconta la storia di un quartiere, anzi di una comuna, di Santiago. E dei giovani che vi abitano. E della musica che vi suonano. Delle canne che si fumano. Delle domande che si fanno. Delle risposte che arrivano. E soprattutto dei tanti errori che commettono, perché non è sempre colpa del sistema. Un film sincero ed onesto sul disagio di tante periferie, con la differenza che qui quasi tutti i partecipanti al cast sono i reali abitanti del barrio. Non si tratta di un documentario ma di un vero film in cui succedono un sacco di cose, grandi e piccole. Un film con una sceneggiatura curatissima, girato da uno studente di una scuola di cinema di Santiago, in maniera semplice ma con discrete (nel senso che sono ottime ma non travalicano mai il registro di un necessario realismo) soluzioni visive e soprattutto con un nutrito comparto di "non-attori" che mette in scena un campionario meraviglioso di espressioni, volti, gesti e movimenti autentici che raramente si possono vedere tutti insieme in un solo film. E questo può succedere proprio per la perfetta aderenza tra quel che i personaggi sono nella vita reale e quel che sono nella storia che il film racconta.

Ragazzi che abitano una periferia dove il rap e l'hip hop sono mezzi per esprimersi e sono veri, dove una radio in cui il nostro gruppo di antieroi viene invitato per suonare e cantare dal vivo, è uno snodo fondamentale della reale vita della comunità, dove la stazione di servizio in cui si intrecciano alcune linee narrative esiste sul serio ed è un posto dove realmente, come accade nel film, i ragazzi vanno a prendersi l'alcol della serata sotto lo sguardo tollerante dell'impiegato che non dice mai niente. E poi ci sono una pistola, un cane smarrito e un gatto sopravvissuto. Ci sono una comunità e la polizia, ci sono la scuola e la strada. E tutto, luoghi, volti, corpi, musica, canne, botte, minacce, è assolutamente reale, nel senso che esiste.

Ora, c'è un problema. E il problema è che il film è in cileno (con sub italiani), si lo so che in Cile parlano lo spagnolo ma non è uno spagnolo normale. Non è lo spagnolo per cui potete dire "Ok, è simile all'italiano". È uno spagnolo che non si capisce, uno spagnolo che neanche gli spagnoli capiscono. Eppure è bellissimo, musicale, un canto. E comunque un film così non potrebbe essere visto in nessun'altra versione. Un eventuale doppiaggio gli toglierebbe qualsiasi senso, qualsiasi autenticità, quindi affinate la vista (per i sottotitoli) e aguzzate le orecchie.

D'altronde, come disse proprio Totò nell'ambito di una intervista sul suo ruolo in Uccellacci e uccellini "Una volta ho interpretato Totò sceicco, c’era un personaggio che si chiamava Omar, e io dicevo: «Omàr, Omàr, vide Omàr quanto è bello», e qui veniva la risata. Una sera sono andato a Nizza al cinematografo dove era proiettato questo film e la battuta, tradotta letteralmente, per forza non faceva più ridere, perché se ne era perduto il senso."

Quindi prendiamoci questa caterva di intraducibili "huevos e huevon" che si ascoltano in Piola (che si potrebbe tradurre con un milanesissimo stare schisci) come se fossero anche tanti validi anticorpi rispetto all'abuso veramente egemonico di "fuck e fucking" da cui siamo tempestati.
Vi divertirete, anche, un po'.
A huevon.


Il film lo potete vedere su Netflix. Cioè qui.

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