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A proposito di Amore. Conversazione con Francesco Amato regista di 18 regali
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Melodramma anomalo che racconta di un incontro impossibile e dell'amore per sempre, 18 regali è una recherche sentimentale che nel dare spazio agli elementi del fantastico guarda al cinema americano e in particolare a quello di Francis Ford Coppola. Del film abbiamo parlato con il regista Francesco Amato

 

 

A fronte di un plot in cui il fantastico assurge a motore narrativo, 18 regali fa riferimento a persone e fatti realmente accaduti. Abituato a farlo nel documentario, mi pare che per te sia la prima volta in un lungometraggio di finzione.

 

Di recente ho fatto un lavoro su Umberto Bossi, quindi diciamo che di personaggi reali me ne sono già occupato. Nel cinema, però, non mi era mai capitato di fare un film tratto da una storia vera e si è trattato di un’esperienza nuova.

 

In questo caso la sfida consisteva nel dare seguito agli elementi di fantasia presenti nella sceneggiatura, rispettando però il lascito e la memoria di Elisa Girotto, la donna a cui si ispira il personaggio di Vittoria Puccini.

 

Si, esatto, guarda, io la prima cosa che ho detto ad Alessio Vicenzotto, marito di Elisa, la ragazza a cui ci siamo ispirati per fare questo film, è stato proprio questo, e forse la cosa che lo ha convinto a firmare con noi la sceneggiatura è stata l’idea che per dare testimonianza dell’esperienza e, se vogliamo, del messaggio di Elisa, bisognava tradire la loro storia inventando qualcosa che andasse contro la cronaca di un lutto. Il pensiero della donna era palese nelle sue lettere, in cui emergeva la volontà di lanciarsi verso il futuro. Da questo punto di vista, noi l’avvenire di queste persone lo abbiamo un po’ immaginato e prospettato in una chiave drammatica e drammaturgica, mettendo in scena la figlia di diciotto anni anni e l’incontro tra due diverse dimensioni temporali. Non volevo fare un film con un’atmosfera del tutto tragica, anche perché non credo sia questo un tono adatto alle mie corde, probabilmente non sono neanche in grado di farlo. In fondo, mi considero un regista di commedie e quindi dovevo trovare una chiave diversa. Ho già fatto film sentimentali ed è questo l’universo in cui mi muovo.

 

In fase di scrittura penso fosse importante rimanere fermi alla verità e all’anelito del sentimento di Elisa Girotto. Il fatto di essere stati fedeli al suo modo di intendere la vita è la chiave che vi ha permesso di lavorare con l’immaginazione e la fantasia. Rispettando l’assunto iniziale sapevate di potervi permettere di tutto. 

 

Si, esattamente, il punto  di partenza, quello che tu definisci il sentimento, in realtà si concretizzava nelle lettere che Elisa ha lasciato prima di morire. I 18 regali che ha fatto alla figlia ci sono serviti per strutturare la storia, ma la sua grande eredità sono le tre lettere scritte al marito, alla figlia Anna e ai genitori pochi giorni prima della sua morte. In esse lei provava a immaginare in senso molto pratico – e se vuoi anche molto femminile – il futuro della figlia e a come poteva contare nella vita della ragazza. Il suo è stato un gesto curioso che mi ha molto emozionato. Tenere conto di questo pensiero e farvi sempre riferimento ci ha permesso di muoverci con la fantasia, nella maniera che hai detto. Il sentimento di Elisa è stato la nostra stella polare.

 

A proposito della maniera femminile di intendere la vita, nel tuo cinema sono sempre le protagoniste a condurre il gioco e, soprattutto in questo film, al centro della tua analisi c’è l’universo sentimentale e il coraggio delle donne di fronte alle grandi questioni della vita. Non credo sia un caso che nei momenti salienti del film Elisa non abbia al suo fianco il marito ma la figlia.

 

Mi fa piacere che tu abbia rilevato questa cosa, però ho difficoltà a commentarla perché è qualcosa che viene fuori in maniera istintiva. Ti posso dire che lavoro molto bene con le attrici. Con loro riesco a creare dei rapporti di complicità che spesso non riesco a trovare con gli attori. Il mio precedente lavoro aveva come protagonista un’attrice drammatica che si chiama Vanessa Scalera in una serie televisiva, Imma Tataranni – Sostituto procuratore, in cui oltre a lei c’era Barbara Ronchi. A quelle che ritengo essere tra le migliori interpreti italiane aggiungo anche Vittoria Puccini e Benedetta Porcaroli, che per me è l’interprete del futuro. Credo che nelle attrici riesco a trovare una combinazione di umiltà e dolcezza capaci di mettermi molto a mio agio quando dirigo i film.

 

Fernando Leo, che nel film è il marito della protagonista, è destinato a rimanere un po’ in disparte e a fare da moderatore della rabbia di moglie e figlia. In qualche maniera la sua figura mi ha ricordato quella di Timothy Spall in Segreti e Bugie, anche lui impegnato a fronteggiare altrettanti umori femminili.

 

Succede anche qui come in molte delle nostre famiglie. Segreti e Bugie è un riferimento che mi è stato già fatto. Io, che pure amo tantissimo il cinema di Mike Leigh, non avevo pensato a quello, anche se il riferimento è assolutamente giusto. Credo, invece, che nel vissuto di ogni sodalizio famigliare esistano tali dinamiche. Peraltro succedeva la stessa cosa in Iva Tataranni, con Vanessa Scalera e la figlia, sempre pronte a beccarsi. Lì era proprio una rappresentazione plastica, con Massimiliano Gallo a fare quello che si dice il ruolo della “candela”. Credo che le donne siano un po’ il centro della nostra vita familiare. Sono stato rimproverato di essere un uomo quando per Iva Tataranni si chiedeva una regista femminile, ma io non penso debba essere così perché secondo me noi abbiamo un punto di osservazione sulla nostra controparte – e le donne c’è l’hanno su di noi -, che può essere molto preciso.

 

Parlando di riferimenti, mi è venuto in mente quello più scontato e cioè P.S. I Love You, solo per l’espediente dei regali postumi e non perché vi abbia ritrovato il tuo film. Al contrario la struggente malinconia, la pietas dello sguardo, la fotografia calda e nostalgica, come pure la dimensione alternativa in cui si svolge l’incontro dei protagonisti, mi hanno ricordato da vicino Peggy Sue si è sposata di Francis Ford Coppola. 

 

Si, hai colto nel segno, perché Peggy Sue si è sposata è il riferimento principe: in quel film c’è una tenerezza che P.S. I Love You non ha. Certo, è un film che ho visto, però lo considero più freddo di quello che volevo fare io. Al contrario, nel lungometraggio di Coppola c’è molto calore e poi è un film in costume perché per lo più è ambientato negli anni ’50. Nel nostro piccolo, anche noi abbiamo fatto un salto indietro, immaginando una provincia italiana che, non so se lo ricorda o meno, ho cercato di rappresentare in una maniera indefinita che a me personalmente richiamava il film di Coppola, ma anche Far From Heaven e Revolutionary Road. Se in televisione cerco di fare dei lavori che siano del tutto territoriali, cioè che affondino nella tradizione anche drammaturgica del paese, nel cinema tendo a prendere in considerazione riferimenti non propriamente italici. Tu ne hai beccato uno ed è quello giusto. Poi, sai, questo film è un grande melodramma e non si poteva non guardare al cinema di Almodovar, in cui c’è il gusto del racconto al femminile.

 

Parlando di melodramma e del tempo ritrovato, 18 regali si presenta come una sorta di recherche sentimentale. Detto questo, tu fai due cose che rappresentano la quintessenza del cinema: da un lato esaltandone la funzione catartica, dall’altro compiendo il miracolo che solo la settima arte può fare, e cioè rendere accettabile la possibilità che nonostante tutto madre e figlia riescano a incontrarsi.

 

Quando ho riconosciuto il senso delle tue parole nella storia che stavo andando a raccontare ho capito di dover fare film. Questo perché si trattava di una vicenda che poteva intercettare lo specifico del cinema nella sua vocazione più alta e cioè di scomporre il tempo e permettere di superare l’idea della perdita. Da lì ho percepito che questo film aveva a che fare non solo con la drammaturgia ma con lo specifico stesso della settima arte: avventurarmi in questa storia e lavorare sul tempo è lo specifico del cinema, la sua missione.

 

La rabbia delle protagoniste, oltre a corrispondere in chiave realistica ai sentimenti vissuti dalle due donne, poteva essere un antidoto alla retorica e al patetismo con cui spesso si rappresentano storie come quella di 18 regali. Non so sei d’accordo con questa affermazione? 

 

Si, certo. Poi sai, in senso drammaturgico, se si potesse raccontare il film in una frase, ti direi che 18 regali è la storia di una ragazza destinata a diventare donna solo dopo aver vissuto l’incontro che le è mancato: in questo ci sta dentro tutto, ovvero il conflitto, l’armonia, soprattutto il primo che poi è il sale dei nostri lavori. Sfacciatamente ti dico che questo lungometraggio l’ho diretto come fosse una commedia, nel senso che anche sul set non è mai mancata l’ironia e la leggerezza. Non ci siamo fatti spaventare dal rischio di alleggerire troppo la storia. Abbiamo dovuto trovare un equilibrio perché, come dici tu, il rischio di patetismo era evidente. Dall’altra parte bisognava avere grande rispetto e senso di responsabilità per la vicenda umana di queste persone. Agli attori ho chiesto di non sottrarre mai niente: prima di tutto le emozioni, e poi la leggerezza nei momenti in cui la storia ci poteva portare in quella direzione.

 

 

Riguardo alla forma, realizzi una messinscena del reale che oscilla tra ordine e caos. La ripresa dall’alto in cui a inizio film mostri il reticolo di villette a schiera è indicativa di una realtà ordinata e armonica (come lo è la lista delle cose da fare segnate da Elisa sul suo taccuino) alla quale, di lì a poco, fa da contraltare il disordine scaturito dalla malattia della donna. Esiste questa corrispondenza tra immagini e contenuto?

 

Si, assolutamente. La panoramica era rappresentativa dell’ordine di quell’ambiente. Si tratta di una location che abbiamo scelto con grande cura, perché andare a girare nella provincia bergamasca non era per niente semplice dal punto di vista produttivo. La decisione di girare lì era fondamentale perché era quello il mondo in cui ho immaginato potesse vivere Elisa. Lei è cresciuta in una zona più o meno simile, ma un po’ meno interessante dal punto di vista visivo. Io ho cercato di trovare un posto che riflettesse quella sensibilità, un luogo di provincia in cui una madre e una famiglia possono immaginare di avere un futuro di armonia. Avrai notato i riferimenti alla natura, parlo per esempio del giardino che si apre verso la strada. Quelli erano tutti elementi necessari a cogliere e a rappresentare l’armonia di Elisa con il mondo e con il territorio. In mezzo a quella emerge un male nascosto che poi prende il sopravvento. Per contro l’universo della figlia è più caotico e quello stesso ambiente che alla madre risultava perfetto per Anna è del tutto inappropriato. Da qui nasce la sua volontà di uscirne, di ribellarsi come spesso accade agli adolescenti di provincia e come fu per il sottoscritto.

 

La vernice bianca che si tinge di rosso a preannunciare la malattia, il costume colorato di un bianco immacolato sinonimo del superamento del lutto e, dunque, della ricomposizione del dramma. E, ancora, l’acqua in cui si tuffa Anna simile al liquido amniotico in cui l’abbiamo vista nella pancia della madre: questo per dire come anche le immagini contribuiscono alla produzione di senso.

 

Certo, certo. È un simbolismo che se vuoi io raccolgo adesso, vedendo il film. Sono felice che tu lo abbia notato e confermo il valore metaforico di questi elementi. A dirti la verità, 18 regali lo abbiamo fatto anche un po’ in fretta, ma questo non significa molto per me. Io preferisco esperienze vissute in apnea anziché tempi lunghi in cui si attende l’ispirazione. Siamo stati sottoposti alla necessità di lavorare in fretta.

 

Sembra il contrario, perché ogni aspetto del film appare molto curato.

 

La mancanza di tempo non ha riguardato la stesura del copione. Quest’ultimo è stato scritto in maniera molto accurata, però gli elementi che tu dici sono caratteristiche che appartengono ai vestiti, alle scenografie. La vernice bianca macchiata di rosso in realtà è un elemento venuto fuori nell’ultimo giorno di lavorazione perché la macchina che doveva mischiare i due colori si era rotta e io ho filmato quell’immagine del rosso sul bianco senza che essa fosse presente nella sceneggiatura. Diciamo che sono soluzioni trovate lungo il percorso dalle quali ci siamo fatti travolgere. Poi credo che tutte le componenti facciano riferimento a quello che tu prima chiamavi il sentimento: la simbologia va di pari passo. Questo è un melodramma puro e vero: non mi vergogno di dirlo, di pronunciare questa parola.

 

Mi hai preceduto, perché volevo proprio chiederti del pregiudizio italiano verso il melodramma, genere per il quale possiamo vantare una buona tradizione e che all’estero è frequentato da registi importanti.

 

Ecco, noi invece abbiamo questo limite che considero tale soprattutto pensando alla ricchezza della nostra tradizione, anche extra cinematografica, ricchissima di modelli di questo tipo. Più che nostra, si tratta di una disaffezione di tutto il continente perché per parlare di limiti dobbiamo fare riferimento a una contro sensibilità europea e non solo italica. In America questo non succede.

 

Basti pensare al recupero del melodramma in chiave moderna e contemporanea svolta dal cinema di Todd Haynes

 

Ma certamente. Da noi c’è un po’ questa demarcazione emotiva rappresentata dal fatto di continuare a essere legati ai codici di un realismo quasi insuperabile, che per l’ultimo cinema è diventato una questione limitante. Il mio è un melò in parte anomalo perché racconta il rapporto tra una madre e una figlia, anziché tra due ragazzi. D’altra parte questo film vuole essere del tutto popolare, per cui ho chiesto agli attori di andare oltre i nostri limiti e i nostri pudori. L’idea che il melodramma sia una parolaccia non ci doveva riguardare. Noi dovevamo andare oltre il nostro immaginario, aprire del tutto il cuore per sperimentare cosa succedeva. Anche questa è stata un sfida.

 

 

La fotografia fatta di colori saturi è modellata a seconda delle varie scansioni temporali: calda e morbida oppure fredda, a seconda degli stati d’animo e delle diverse scansioni temporali.

 

Parlando di fotografia dobbiamo includere nel discorso anche costumi e scenografia e cioè riferirci alla triangolazione di questi tre reparti che mi ha permesso di lavorare con professionisti di altissimo livello. Oltre a dare il meglio nel proprio ambito, ciascuno di loro ha fatto lo stesso nell’ascolto degli altri reparti. Cioè, io trovo che questo film, più che in altri, ci sia una combinazione di scelte visive, di costumi e scenografie. Se noti, gli abiti hanno tutti lo stesso tono pastello nella parte del 2001, mentre in quella contemporanea gli stessi appaiono con tonalità più fredde. Ecco, noi abbiamo cercato di fare questa cosa, cioè di differenziare le due epoche, di scaldare moltissimo il passato. Ci sono degli elementi che sono difficili da avvertire, da leggere e da percepire, ma tutta la fase che definiamo più calda, più generosa, ha una grana all’ottanta per cento che richiama moltissimo il sapore della pellicola, con la sua tipica “sporcatura”: per contro, nel presente della storia la grana è del tutto eliminata. Questo ci consente di avere da una parte un’immagine più calda, dall’altra una più fredda: più confortevole e armoniosa nel passato, più fredda e più secca nel presente della storia. Poi c’è stata la volontà da parte del direttore della fotografia, ovverosia di Gherardo Gossi, che è un ragazzo meraviglioso, di fare un film in qualche modo elegante, che permettesse di starci bene dentro, cioè di viverlo con armonia, senza perdere alcun incanto. Il film non è mai  banale dal punto di vista fotografico.

 

A proposito di colori, il blu è destinato a svettare sugli altri e non a caso è quello del vestito indossato da Anna per festeggiare il 18 compleanno. La presenza dell’abito, tra l’altro, è foriera di ulteriori sfumature narrative, suggerendo la capacità del sogno di incidere sulla realtà.

 

Molto prosaicamente e un po’ simbolicamente è il colore che attribuiamo al cielo, all’universo, quindi a una dimensione, quello del futuro della ragazza, che la vedrà accompagnata dall’idea della madre. I colori caldi riportavano al passato, quelli tendenti al blu spostavano la vicenda in avanti, a quello che doveva essere e all’immaginifico. Ad ogni modo, sono sempre colori saturi. Anche quel blu, di cui tu parli, lo è ed esprime vitalità.

  

Per trascorsi lavorativi, Massimo Gaudioso si era più volte cimentato in storie che partivano dalla realtà per poi mescolarsi con elementi di fantasia. Basterebbe ricordare le sceneggiature scritte per, e insieme, a Matteo Garrone. Volevo sapere qualcosa di più sul suo contributo.

 

Guarda, io non so come lavora con Matteo. Diciamo che il riferimento che hai  intelligentemente attribuito al film – e cioè Peggy Sue si è sposata – è di natura gaudiosiana. Direi che il valore più grande che Massimo ha portato nel film è una semplicità che attraverso l’osservazione insistita delle cose volge in magia. Parlo di un’epifania profonda delle cose, che poi si spostano verso un mondo favolistico. Considera che come regista ha fatto un film che aveva qualche aspetto delle cose appena dette. Massimo lavora su una semplicità del reale talmente insistita da diventare favola. Con me ha interagito molto bene, anche nel rapporto con l’attore, nel senso che una volta finito il copione lo abbiamo misurato facendolo recitare agli attori. Di solito è li che si cambiano le battute e si rimette un po’ tutto in gioco sulla base delle scelte del cast.

 

Vittoria Puccini è perfetta per il ruolo di Elisa. Il suo personaggio attraversa un’evoluzione psicologica che la mostra di volta in volta fragile e scontrosa. In questo senso, tu riesci a sfruttare al meglio il contrasto tra la dolcezza del suo viso e la levigatezza della figura. Di Benedetta Porcaroli hai appena fatto un pronostico lusinghiero sul proseguo della sua carriera. Parliamo di loro due.

 

Non ho mai immaginato per Elisa un’attrice diversa da Vittoria. Quando ci si chiede – e oggi nel cinema italiano lo si fa subito –  quali attori possono interpretare un ruolo in un film di solito escono fuori i soliti nomi. Da parte mia chiedo sempre di fare casting, di fare provini, di incontrare attori. In questo caso non è andata cosi perché i suoi occhi e la liquidità del suo sguardo me l’hanno resa subito affine al personaggio. Non ci poteva essere un’attrice in grado di manifestare l’emotività di cui parlavamo prima se non lei. Poi, Vittoria è mamma e anche figlia ed è in una fase della vita in cui, secondo me, il ruolo le si addiceva del tutto. In tutto questo sono entrato con la storia di Elisa sapendo che Vittoria avrebbe saputo affondare nelle emozioni della protagonista. C’è da dire che Vittoria è anche un’attrice concentratissima, un’interprete, come fu nel mio passato Toni Servillo. Come lui, anche Vittoria è capace di seguirti fino in fondo. Ogni tanto tu dici una cosa molto precisa a un attore per spostarlo di qualche centimetro. Poi ce ne sono alcuni a cui se tu dai un’indicazione loro vanno del tutto da quella parte. Vittoria è unica, ti segue su tutto con grande umiltà e generosità, ma soprattutto con grandi preparazione e concentrazione. Non è una cosa così comune tra gli attori italiani e con la recitazione in Italia. Di Benedetta che vuoi che ti dica, è un’attrice molto brava a cui pronostico un grande avvenire. È molto vitale e istintiva. Se con lei non mi sono dedicato allo stesso lavoro di approfondimento fatto con Vittoria è proprio perché lei aveva questo grande istinto per la recitazione. In più, come tutti i grandi attori, Benedetta ha una fotogenia pazzesca.

Carlo Cerofolini

(pubblicato su taxidrivers.it/Conversation)

 

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