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LUKE CAGE - Black Man in a White World
di Andrea Fornasiero ultimo aggiornamento
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(LEGGERI SPOILERS)

«In America la distruzione del corpo nero è una tradizione, un retaggio culturale» scrive Ta-Nehisi Coates al figlio quindicenne in Tra me e il mondo, ma cosa succede se il corpo di un nero si rivela improvvisamente invulnerabile? Questa la premessa della serie Luke Cage (qui la nostra ricca scheda), che il suo autore Cheo Hodari Coker ha ribadito in ogni intervista, ma che solo all’altezza del decimo episodio circa viene davvero affrontata. Accade quando Cage, in fuga dalle autorità, vede un gruppo di teppisti armati entrare in un drugstore e decide comunque di fermarli, salvando così Method Man dei Wu-Tang Clan. Questi alla radio gli dedica una canzone, che diventa una sorta di ballata popolare, e nelle strade spopola lo hoodie - ossia la felpa con cappuccio, tra gli indumenti più tipici della cultura hip hop – pieno di buchi, come crivellato da colpi di pistola. Un capo identico a quelli che indossa Luke Cage, quasi a voler dire: potete spararci ma non potete ucciderci. Si tratta però, purtroppo, di un breve passaggio in una sola puntata, presto riassorbito da una narrazione che preferisce rimanere al consueto scontro tra l’eroe e i megalomani criminali di turno, piuttosto che approfondire la portata del proprio assunto.

Sempre Coates scrive: «Ed eccoci al punto: il diritto [dei bianchi] di spezzare il corpo nero come la ragion d’essere della loro sacra uguaglianza. E quel diritto ha sempre dato loro un senso, ha sempre significato che ci fosse qualcuno già nella valle, perché una montagna non può essere tale se sotto non c’è niente da sovrastare». Un diritto che Cage nega a “quelli che si credono bianchi”, ma la serie, ambientata interamente in una Harlem pre-gentrificazione, preferisce non fare entrare in gioco la questione razziale e rimane largamente circoscritta all’interno della comunità black. Il cui centro nevralgico, sia in termini culturali sia in termini di potere criminale e narrativi, è il club di Cottonmouth, l’Harlem Paradise, che Coker definisce «il nostro Trono di Spade».

Qui si susseguono diversi numeri musicali, sia registrati sia suonati dal vivo (questi ultimi disponibili nella Marvel’s Luke Cage: The Live Score dal 6 ottobre), che costituiscono l’elemento più felice della serie: le musiche fanno infatti il possibile per restituire l’identità sonora di Harlem (su quella visiva stendiamo un velo pietoso riguardo i vistosi set utilizzati per molte scene in interno, cui si cerca di sopperire virando le luci sul giallo nel tentativo di creare un’atmosfera calda e suadente). L’uso della musica è ottimo e abbondante anche fuori dal club, in particolare nelle scene d’azione, che del resto ne hanno un grande bisogno per dare un ritmo alle scialbe coreografie di lotta.

Scrive di nuovo Coates: «Guardavo il modo in cui si muovevano, come ballavano in quei club, ed era come se quei corpi potessero fare di tutto, liberi come la voce di Malcolm. Fuori di lì i neri non avevano il controllo di nulla, meno di tutto del destino dei loro corpi, che erano nelle mani della polizia, che potevano essere cancellati con le armi che proliferavano ovunque». Pur se con pochi bianchi in circolazione, la Harlem di Luke Cage non è infatti un posto sicuro per i neri e le armi decisamente non mancano. Ma si tratta di armi che non possono ferire il protagonista, il quale però è riluttante a prendere la situazione in pugno e a intervenire. Di questo ci viene fornita una ragione narrativa: il personaggio è un latitante e vuole restare nell’ombra, ma è anche vero che questa sua paura di essere un eroe violento è inculcata ai neri fin dalla scuola. Ricorda Coates vari documentari che gli facevano vedere mensilmente in classe, portandolo a chiedersi: «Perché i nostri eroi erano tutti non violenti? Non parlo della moralità della non violenza, ma dell’idea che i neri in special misura necessitino di questa moralità».

Cage sa che la sua stessa esistenza antiproiettile costituisce una sfida al sistema, lo sa molto bene perché è passato per una dura repressione carceraria e, come diceva Malcolm X: «Se sei nero sei nato in prigione». La prigione è appunto il luogo dove rinasce, acquisendo i suoi poteri, ma il Cage televisivo è lontano dai precetti di Malcolm X tanto che appena uscito di galera si taglia i capelli afro. Rifiuta, nel suo desiderio di anonimato, lo spirito “badass” originario del personaggio a fumetti, eroe a pagamento dallo stile blaxploitation, senza illusioni di giustizia sociale ma pure senza alcuna timidezza per la sua natura. Tanto che un elemento chiave del costume era una grossa catena, simbolo quant’altri mai della schiavitù e di cui Cage implicitamente si riappropriava con orgoglio, dimostrando di averne sconfitto la paura al punto da usarla come cintura.

La relativa timidezza del protagonista va dunque di pari passo a quella degli sceneggiatori, che pur se sono tutti afroamericani non vogliono – o non possono: parliamo pur sempre di un prodotto Marvel Disney – affrontare davvero la questione razziale. Riescono comunque a inserire almeno un elemento di grande rilevanza e assente nei fumetti: le pallottole Judas, che sono in grado di ferire e quindi anche di uccidere Luke, e di cui viene presto dotata anche la polizia. Armi speciali che il capo sul campo della squadra di agenti, naturalmente bianco, non vede l’ora di usare sul supereroe, quasi a voler dimostrare di poterlo spezzare e ristabilire l’ordine “naturale” americano. Altri personaggi neri gli dicono invece di sparare solo se assolutamente necessario, perché se quelle armi cessassero di essere un segreto inizierebbero a circolare anche tra i criminali. Una riflessione sul rapporto tra armi, criminalità, forze dell’ordine e società americana per nulla peregrina, che non salva però Luke Cage dall’essere un’occasione mancata, soprattutto se si pensa che la Disney ha già sotto contratto uno sceneggiatore militante come il John Ridley di American Crime

La serie segue invece l’impianto della formazione dell’eroe di scuola Marvel, coniugata al modello semi adulto di Netflix e con un ottimo cast di comprimari, tra cui spiccano Mahershala Ali, Rosario Dawson, Alfre Woodard e Simone Missick. Incappa però in varie scorciatoie di sceneggiatura e nei cali di ritmo che il formato da 13 episodi di queste serie ci ha abituato a temere. Fa comunque piacere che, pur con tutti i suoi limiti, sia arrivato finalmente sul piccolo schermo un supereroe nero.

I've been low, I've been high
I've been told all my life
I've got nothing left to pray
I've got nothing left to say
I'm a black man in a white world…
Written by Dean Cover, Michael Samuel Kiwanuka


Qui i precedenti articoli della rubrica CoseSerie.

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