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Esuli: La trilogia umana di Barbara Cupisti
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Barbara Cupisti

Esuli: Le guerre (2015): Barbara Cupisti

 

«Secondo l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite (UNHCR), alla fine del 2014 più di 59,5 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case a causa di conflitti, e crisi umanitarie, socio-politiche e ambientali. Il 51% di queste persone sono minori sotto i 18 anni di età. Se queste 59,5 milioni di persone fossero una Nazione, sarebbe la 24^ Nazione più grande del mondo. Tre quarti di questi rifugiati sono in una situazione di “esilio a lungo termine” senza alcuna prospettiva di ritorno a casa.

Questi numeri ci descrivono un esodo forzato e permanente di centinaia di migliaia di persone che, anno dopo anno, si mettono in cammino e rischiano la vita per evitare la morte, la persecuzione o la miseria che li attenderebbe dove hanno sempre vissuto, lavorato e dove spesso lasciano anche i loro affetti più cari. Recenti studi indicano che la popolazione dei rifugiati continuerà a crescere durante tutto il prossimo decennio, anche in nuove e diverse modalità. Nuove connotazioni dovute alla crescita demografica in particolar modo in Africa e Asia; un numero sempre più elevato di rifugiati urbani che porterà a una maggiore urbanizzazione; ogni anno milioni di esiliati saranno causati dai cambiamenti climatici e dai disastri naturali; lo spopolamento di intere aree del mondo, dovuto sia dal crescente costo del cibo, questo causato dalla crescente urbanizzazione e dalla riduzione della produzione agricola in Africa e Asia che dal crescente numero di conflitti».

 

Agli esuli del Terzo Millennio è dedicata la trilogia Esuli (Le guerre, Tibet e L'ambiente), diretta da Barbara Cupisti e presentata come evento al festival internazionale del documentario Visioni dal mondo. Com'è nel suo tipico stile, alla regista non interessa risalire alle cause dei conflitti: interessa semmai evidenziarne le conseguenze dando voce a coloro che subiscono in prima persona gli orrori, l'umiliazione e l'oppressione dei conflitti. Con immagini che lasciano ben poco all'immaginazione ma che non cercano la scossa pietistica che caratterizza altri cineasti, la Cupisti si reca in prima persona sui luoghi da raccontare, acquista la fiducia dei testimoni e diviene medium per le loro composte urla di dolore e il loro fiero orgoglio. Vittime di un contesto e di una situazione di cui non hanno responsabilità alcuna, gli esuli hanno negli occhi la fierezza di chi vuole rialzare la china e la sofferenza di chi è stanco di uno status quo che non fa più notizia.

Alla regista va dato merito di non indugiare nel sensazionalismo, mantenendo un tono defilato che si trasforma in notizia e si insinua nelle coscienze, laddove nessun giornalista è mai riuscito a entrare. Le musiche, composte tra gli altri anche dal giovane Tommaso Gimignani (frontman degli Space Lemon, da FilmTv.it intervistati), hanno poi il difficile compito di sottolineare o accentuare immagini che, se non fossero orribilmente reali, potremmo definire di fantascienza: sì, perché Esuli non è solo un documentario ma è anche un ottimo thriller della triste verità che l'umanità vive e che noi occidentali ci rifiutiamo di vedere.

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1. Le guerre

Le guerre, il primo capitolo, si apre con le immagini di un parte cesareo, della venuta al mondo di uno di quei 500 mila bambini che nascono nei campi profughi, gestiti dalle Nazioni Unite e coadiuvati dalle associazioni internazionali di aiuti umanitari. Alla felicità del parto si contrappongono subito le immagini asettiche e povere dell'ospedale di fortuna costruito nel campo di Dadaab in Kenya, a 80 km dal confine con la Somalia. Tormentata da una sanguinosa guerra civile iniziata nel 1990, la Somalia ha visto negli anni circa 430 mila dei suoi cittadini lasciare case, villaggi e famiglie, per trovare ospitalità dopo aver percorso anche 500 chilometri a piedi nei cinque campi di accoglienza in territorio kenyota. I bambini nati all'interno dei campi non ottengono la cittadinanza della nazione ospitante ma solo un certificato che decreta per sempre il loro status di rifugiato, profugo. Ciò comporta che da quel momento in poi non possono lasciare i confini della struttura, non possono né muoversi né tentare la fuga: come anche gli adulti, rischierebbero stupri, attacchi dei pirati e fucilazione da parte delle forze governative. Vivere all'interno del campo profughi non è umano: le condizioni di igiene, alimentari e di salute, non rispettano nessuno standard minimo, anche a causa dei fondi drasticamente ridotti con il passare del tempo: l'Occidente sembra infatti aver fatto l'abitudine a certi orrori sviluppando un disinteresse quasi anestetico, mettendo a repentaglio anche le forniture di acqua, gli aiuti sanitari e l'educazione primaria. Non aiutano poi i numerosi casi di crimini commessi all'interno o all'esterno del campo: basti ricordare ad esempio i casi delle due operatrici di Medici senza frontiere e dei 4 cooperanti del comitato norvegese per i rifugiati rapiti negli ultimi tempi. A chi cerca una parvenza di umanità rispondono le immagini di un padre di famiglia o di una madre costretti a razionare le poche risorse a disposizione e quelle dosi di cibo che cibo non è.

Da Dadaab la telecamera della Cupisti vola a Zaatari, in Cisgiordania. Altra guerra, altri esuli: a causa del conflitto siriano, oltre 741 mila profughi hanno cercato riparo oltre i confini, dove l'ampia struttura delle Nazioni Unite ospita 4 ospedali, una scuola e un centro per bambini, utile a far vivere ai più piccoli una parvenza d'infanzia. Le testimonianze raccolte in loco, tutte anonime a causa del pericolo di vita a cui andrebbero gli intervistati, mostrano come ogni famiglia ottenga solo una carta servizi, un'unica tenda e del latte razionato per i piccoli che non possono essere allattati dalle madri. La loro colpa? Essersi opposti a un regime che ha fomentato la divisione sociale con l'intervento dell'esercito e l'uso delle armi chimiche per reprimere ogni tentativo di resistenza. "In Occidente non si sa più cosa significhi aiutare le persone... noi non siamo terroristi, non siamo Al-Qaeda", è il disperato urlo di un padre.

Oltre che a Zaatari, i siriani trovano rifugio nel campo di Akcakale, dove un ex paramedico racconta di come anche gli ospedali nel suo paese siano diventati luoghi di tortura da parte di medici e infermieri, di come si sia persa ogni briciola di umanità nei confronti di chi, secondo le parole del profeta Maometto, ha subito la più grande delle punizioni: perdere la casa. Terza guerra, terzo misfatto umano: la questione palestinese. Dal 1948 oltre 2 milioni di palestinesi hanno abbandonato la loro terra: nonostante le difficoltà e la repressione, hanno però mantenuo intatta la loro fierezza. La fierezza utile a concretizzare un sogno che rischia a tutt'oggi di rimanere illusione. Dal 'campo' di Al Wehedat, in Giordania, si inseguono le testimonianze di due individui che altrove sarebbero realizzati, un pittore e una psicologa, un uomo che dipinge i problemi della propria gente ma non che non ha mai visto la sua terra e una donna che, riflettendo sull'assenza di normalità e sulla dipendenza creata dagli aiuti esterni, esterna i sentimenti che caratterizzano ogni palestinese: nostalgia, speranza e attesa.

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Esuli: Le guerre (2015): scena

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2. Tibet

Tibet si concentra sulle storie di esodo di coloro che sono stati costretti ad allontanarsi dal proprio Paese a causa di persecuzioni di razza, religione, nazionalità e/o appartenenza a un determinato gruppo sociale od opinione politica. Bastano solo le intenzioni per capire che si narrano le vicende dei profughi tibetani. E' il 1949 quando le truppe cinesi iniziano lentamente l'invasione dei territori del Tibet. La scusa apportata dai comunisti cinesi era alquanto pretestuosa: in Tibet non c'è progresso e il loro arrivo avrebbe dovuto portare soldi come la pioggia. La situazione prospettata però si è rivelata sin illusoria: la rivolta di Lhusa del marzo 1959 ha portato alla fuga del Dalai Lama, massimo esponente della religione buddhista, e di altri 80 mila tibetani, costretti a chiedere asilo politico all'India, dove a Dharamsala si è insidiata la sede del governo tibetano e ha trovato ospitalità il Dalai Lama. Tutti coloro che hanno provato a resistere al governo cinese hanno incontrato la morte o il carcere: pochi sono i sopravvissuti che possono ancora rammentare gli eventi per averli vissuti in prima persona, come un'anziana donna il cui unico obiettivo era quello di raccontare il dramma direttamente al Dalai Lama o di un anziano costretto a ben 33 anni di carcere, torture e sevizie. I documenti comprovano anche come il 70% dei prigionieri siano morti di fame perché lasciati senza cibo per ben due anni, dal 1960 al 1962. Le statistiche inoltre elencano come la persecuzione cinese abbia portato in totale dal 1949 a oggi a quasi 1 milione e 250 mila morti, tra cui maestri e intellettuali che avrebbero potuto tramandare la cultura tibetana alle nuove generazioni.

Alle nuove generazioni, 'ai futuri semi del Tibet', dal 1960 in poi provvedono i Tibetan Children Village, villagi formativi voluti dal Dalai Lama in persona per i bambini rifugiati e gli orfani. Si tratta di strutture in cui i più piccoli vengono ospitati per sette anni durante i quali, grazie anche alle attenzioni di una 'mother home', imparano a provvedere a se stessi, a cucinare e a pulire, e apprendono i concetti basilari della filosofia e della cultura tibetana da tramandare a perpetua memoria.

"Viviamo con i ricordi presi in prestito", sentenziano i pochi 'fortunati' che vivono nella strategica regione di Laddak, luogo equidistante da Pakistan e Cina. E a chi pensa invece che i monasteri siano luoghi sicuri la Cupisti mostra come anche i più sacri dei luoghi tibetani siano stati violati dalle forze cinesi e dalle loro spie in incognito, pronte a infiltrarsi tra monaci e monache per carpire le mosse dei resistenti e anticiparle. Tibet si conclude con un'intervista esclusiva al Dalai Lama, che ricorda come per il popolo tibetano sia essenziale superare le difficoltà, avere un piano concreto e essere autosufficiente per imparare a ricostruire solo attraverso i propri sforzi.

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Esuli: Tibet (2015): scena

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3. L'ambiente

L'ambiente è dedicato ai rifugiati ambientali e agli esuli da conflitti ambientali, ovvero a tutte quelle situazioni in cui il degrado ambientale, il depauperamento delle risorse naturali, l'inquinamento e i disastri ambientali, hanno determinato l'impossibilità di garantirsi mezzi di sostentamento nei propri territori. In particolar modo, è dedicato con tanto di omaggio all'inizio al popolo indigeno dei Guaranì-Kaiowa del Mato Grosso, vittime di un ultimo feroce attacco da parte delle milizie brasiliane lo scorso 24 giugno. Popolazione autoctona, i Guaranì-Kaiowa sono uno dei tanti gruppi etnici indigeni costretti ad abbandonare le terre che coltivavano da secoli a causa della colonizzazione da parte dei fazenderos, coadiuvati dal governo che intravede nell'allevamento e nell'agricoltura industriale grossi introiti. A oggi, i Guaranì vivono in condizioni di sofferenza, privi di spazio, di terra e di prospettive future per i loro bambini. A differenza dei coetanei di tutto il mondo, i giovani non hanno accesso ai moderni mass media e, soprattutto, a internet, ritrovandosi così senza voce e senza possibilità di denuncia dei crimini a cui sono sottoposti. La resistenza e la reazione sono le uniche chiavi di sopravivenza ma, a oggi, dell'oltre 1 milione e mezzo di Guaranì sopravvivono solo in 48 mila, spesso in condizioni incivili, in tende fatte di sacchetti per la spazzatura ai margini di autostrade senza barlume di speranza. Eppure, i Guaranì sono i migliori ambientalisti del pianeta: difendono la natura, i fiumi e le forme di medicina tradizionali, dall'attacco dei fazanderos, incuranti dei danni provocati dalla deforestazione dell'Amazzonia. Danni sia diretti sia indiretti: occorre infatti ricordare che la distruzione del polmome verde della Terra ha gravi conseguenze sull'effetto serra e sulle temperature climatiche, conseguenze che sono ben mostrate dallo stato di siccità in cui versa la cittadina californiana di Porterville.

Nel 2015, Porterville ha vissuto la peggiore siccità degli ultimi 500 anni con le acque del lago vicino quasi del tutto prosciugate e il Governo che ha imposto la riduzione del 25% del consumo idrico. Come testimonia Donna Johnson, volontaria che dopo aver vissuto in prima persona le conseguenze della siccità ha deciso di aiutare le famiglie senza acqua corrente. La situazione in tutta la contea è apocalittica: senza acqua, le abitazioni dopo un anno saranno dichiarate 'red tags', inabitabili e destinate alla demolizione. Ritornati a essere come i pionieri di decenni prima, gli abitanti di Porterville potremmo essere tutti noi: non è un caso che secondo le statistiche nel 2050 i profughi ambientali nel mondo saranno (o saremo) oltre 250 milioni.

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Esuli: L'ambiente (2015): scena

 

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