"Non consideratela come la più calda estate in Val Padana o nell'Agro Romano/Pontino dell'ultimo secolo, ma come la più fresca del prossimo." (La versione non parafrasata è qui.)
Una volta tanto il titolo originale tradotto in maniera letterale, ovverossia “le Previsioni del Fuoco”, non è così efficace come la parafrasi che s’è scelto di adottare, ché “l’Età/l’Era del Fuoco”* è, direi, un concetto abbastanza se non alquanto incisivo.
*Termine comunque già portato alle cronache della divulgazione di medio-alto livello da Stephen J. Pyne in “The Pyrocene: How We Created an Age of Fire, and What Happens Next”, University of California Press, 2021 (“Pirocene - Viaggio nell’Età del Fuoco, tra Passato e Futuro”, Codice, 2022).
C’eravamo da poco abituati al suffisso in -ene “definitivo”, quello di “Antropocene”*, ed ecco che le sotto-ere spuntano a frotte, a volte sovrapponendosi, ma mai alternative e sempre complementari fra loro: Pirocene, Carbo(n)cene, Petro(l)cene e l’Era Atomica, che a ‘sto punto si potrebbe pure battezzare Fiss(i)o(n)cene, in attesa del Fus(i)o(n)cene e dell’AI-cene…
*Scrivevo, parlando del “Jungle” di Patrick Roberts (e ne approfitto per consigliare anche “Fen, Bog & Swamp” di Annie Proulx): “Homo sapiens di anni ne ha circa 300.000 e l’Antropocene è una definizione ancora in divenire, letteralmente, comprendendo un periodo che parte dalla domesticazione del fuoco e giunge all'alba della seconda rivoluzione industriale (l’era nucleare invece potrebbe mettervi fine), passando per la prima rivoluzione agricola del Neolitico nella Mezzaluna Fertile.”
Petr-olio: o del cavar benza dai sassi. E John Vaillant scrive un reportage saggistico tripartito (un’introduzione generale, la cronaca dell’incendio di Fort McMurray e “dintorni” vero e proprio, e le conclusioni particolari) che definire appassionante sarebbe un eufemismo, e a tal proposito basti semplicemente specificare che solitamente per la serie “Libri Animati”, nell’apposita sezione della playlist vera e propria, ovvero nello spazio dedicato all’elenco dei film inseriti nella stessa, propongo alcuni svariati brani, più o meno numerosi e più o meno lunghi, estrapolati dal romanzo, dall’antologia di racconti, dal saggio o dal reportage di volta in volta trattati, abbinandoli ad opere cinematografiche analoghe per tematiche affrontate nei tomi/volumi cartacei e, beh, in questo caso il lavoro di cernita e scelta che ho operato è stato “brutale” ed “estenuante”, perché in realtà e tutta verità avrei dovuto/voluto, ma non potuto, citare almeno la metà dell’intero testo, e non perché il libro (bellissimo) sia particolarmente superiore agli altri per quanto riguarda tanto il livello scientifico quanto quello artistico (comunque, s’è capito, eccezionalmente validi entrambi), ma per via della quantità di informazione che contiene (oltre alle quattro pagine di bibliografia e alla quarantina abbondante di note), molto più alta ad esempio rispetto alla mole percentuale di petrolio racchiusa nelle sabbie bituminose dell’Alberta, il Texas canadese.
Il bitume, il greggio e i loro derivati sono considerati petrolio «grezzo», ma in realtà fanno parte del più ampio mondo degli idrocarburi, che non sono soltanto petrolio e gas ma rappresentano la materia prima della vita stessa: senza l'idrogeno e il carbonio la Terra non sarebbe che una sfera di pietra, inabitabile e irriconoscibile. Per descrivere gli idrocarburi è più facile andare per esclusione: non sono né acqua né aria, né pietra né metallo, tutte cose che, in altre parole, non sono e non sono mai state vive, nel senso biologico del termine. Ma anche se escludiamo dal computo il 99 per cento degli elementi che costituiscono la Terra, rimane ancora in gioco una quantità pazzesca di cose. Non è facile farsi un'idea del concetto di «idrocarburi», perché assumono forme diversissime. Per quanto poco si somiglino, il carbone del Kentucky e il bourbon del Kentucky sono entrambi pieni di idrocarburi; e lo stesso la torba dell'Irlanda e il suo whisky. Anche le balle di fieno, le scoregge di mucca, i libri delle biblioteche e l'olio extra-vergine d'oliva sono idrocarburi. E un triciclo, la Barbie, il Lego, le tute sportive, i preservativi, la vaselina, il WD-40 e tutti gli alberi della Terra hanno come base gli idrocarburi. E anche il grasso umano. I grassi, o meglio, i lipidi, sono i precursori organici di tutto il petrolio che bruciamo, Li contengono anche le piante, comprese le alghe e il fito-plancton. Dopo che queste creature si sono decomposte o trasformate in sedimento inerte, i lipidi sopravvivono a lungo, a conferma di quanto sospettano tante persone che cercano di perdere peso: il grasso è immortale.
Qualunque forma assumano, gli idrocarburi rappresentano energia potenziale, nello specifico il fuoco. Noi siamo, in ogni senso e secondo ogni standard di misurazione, inseparabili dagli idrocarburi e dai fenomeni che li rendono possibili. Dobbiamo loro la vita perché sono la nostra vita, ed è grazie alla presenza dell'ossigeno nell'atmosfera che gli idrocarburi bruciano. Il fuoco, potremmo dire, è l'espressione somma degli idrocarburi: giovani o vecchi, vivi o morti, solidi, liquidi o gassosi, il fuoco li unisce (e ci unisce a loro) in un'estasi onnivora di reazioni chimiche.
Per l'uso che ne facciamo, il petrolio e il gas sono tanto una materia prima quanto un superpotere prometeico che potremmo ribattezzare «fuoco in attesa». Il fuoco allo stato selvatico è bestiale, pericoloso e incontrollabile; è fulmine, lava e foreste distrutte. Il petrolio, d'altro canto, è fuoco costretto all'obbedienza: freddo e trattenuto, aspetta il nostro segnale e obbedisce ai nostri ordini. O perlomeno, all'inizio doveva andare così. Si dice spesso che questa sia l'epoca migliore per essere umani. Qualcuno non sarà d'accordo, ma una cosa è certa: in tutta la storia del genere umano non c'è mai stato un momento migliore di questo per essere un incendio.
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Il fuoco, a quanto ne sappiamo, è una prerogativa del nostro pianeta. In un certo senso è «l'ultimo arrivato»: circola sulla Terra da quasi mezzo miliardo di anni, un tempo che sembra molto lungo, ma se la storia terrestre fosse espressa come un secolo, il fuoco ci sarebbe solo negli ultimi dieci anni o poco più. Per chiarezza, ricordiamo che «fuoco» non vuol dire «calore», del quale invece l'universo abbonda. Il sole emette calore, ma non «brucia» in senso terrestre. Il nostro fuoco è una cosa diversa: non è un gas né un elemento così come lo intendeva Aristotele. È una reazione chimica. E prima che comparisse la vita sulla Terra, non era possibile. La vita - nello specifico la vita vegetale e l'ossigeno che essa genera - è la conditio sine qua non del fuoco come lo conosciamo, e la maggior parte della storia terrestre si è svolta in un'atmosfera ostile all'una e all'altro. Quattro miliardi di anni fa, ai primordi della vita e all'indomani della formazione degli oceani, l'atmosfera del nostro giovane pianeta conteneva poche tracce di ossigeno. I suoi primi coloni furono microbi anaerobici: per loro l'ossigeno era non soltanto inutile ma anche tossico, letale, e lo è ancora oggi per i loro discendenti che abitano nelle zone prive di aria. Come nel caso dei lieviti, si cibavano di composti organici per niente assimilabili alla nostra idea di cibo, ed emettevano come prodotti di scarto meta-no e anidride carbonica (e questo lo facciamo anche noi).
Ciò che ci unisce al fuoco è l'ossigeno, un elemento chi mico nato nelle fucine della Creazione, ovvero il calore e la pressione divini presenti soltanto nel nucleo delle stelle. Abbondante e vispo, l'ossigeno si potrebbe definire l'elemento più promiscuo dell'universo, perché reagisce o si lega a qualunque cosa con cui entri in contatto (il fluoro è più reattivo, ma di gran lunga più raro). Nelle giuste condizioni gioca un ruolo determinante nella combustione. I chimici definiscono il fuoco «evento a ossidazione rapida», ma qui sulla Terra quasi tutto è in continua ossidazione, secondo modi e ritmi diversi: una trave d'acciaio arrugginisce in maniera quasi impercettibile per decenni, mentre una bottiglia Molotov esplode all'istante. Quale che sia la reazione, avviene sempre grazie all'ossigeno. Naturalmente ossidiamo anche noi: grazie alla fotosintesi, la transustanziazione alchemica di luce solare, acqua (H₂O) e anidride carbonica (CO₂) che avviene in quegli organismi viventi che strappano ossigeno alle molecole d'acqua e ne rilasciano in quantità sufficienti ad alimentare le nostre cellule, ma anche il fuoco. Per questo motivo è legittimo dire che entrambi - il fuoco e noi umani - dobbiamo la nostra esistenza ai vegetali, e in particolare ai cianobatteri. Questi ultimi appartengono a un phylum di creature monocellulari di straordinario successo, le prime che, circa 2,7 miliardi di anni fa, riuscirono a eseguire la fotosintesi su scala planetaria. Per questi pionieristici «pannelli solari», più che una semplice fonte di calore la luce era un catalizzatore di vita, e il loro successo ebbe conseguenze catastrofiche nell'atmosfera terrestre.
Tutti gli organismi fotosintetici generano ossigeno come prodotto di scarto (noi umani invece generiamo metano e anidride carbonica), e considerata la nostra abitudine a identificare l'ossigeno con le sue proprietà vitali è difficile assimilarlo a un agente inquinante. La prodigiosa produzione di ossigeno dei cianobatteri contaminò l'atmosfera terrestre a tal punto da uccidere, soffocandole, la maggior parte delle creature anaerobiche, fondatrici della vita sul pianeta. Nel vuoto rimasto si svilupparono nuove specie in grado di sopravvivere in un ambiente ricco di letale ossigeno. Ciò che consentì a queste prime creature aerobiche di prosperare ed evolversi in forme di vita più complesse fu l'ennesimo dono della fotosintesi: lo strato di ozono, un sottoprodotto della massiccia concentrazione di ossigeno nell'atmosfera, senza il quale la Terra - insieme alla vita, agli oceani, all'atmosfera e al resto - avrebbe fatto la fine di Marte.
Le previsioni sono fatti. John Vaillant raccoglie e riporta dati (numeri, correlazioni, andamenti) dimostrati: con sano spirito critico se ne può contestare l’argomentazione e trarne una propria, ma se questa risultasse diversa più che in infinitesimale parte dalla sua si dovrebbe essere impiccati sulla pubblica piazza da un governo ecologista-plutocratico.
Vento come lanciafiamme. Aurore boreali, arcobaleni, albe, tramonti, cieli sereni tra nuvole e Sole sopra alla foresta boreale (tundra, taiga, steppa, permafrost), e il bioma che (climate change → global warming) diventa piroma, e poi: pirofulmini, pirocumulonembi, pirotornadogenesi (la specialità dei tornado, di qualunque sia la loro natura, è quella di "cancellare il contesto"), flashover ambientali.
Homo (sapiens) humus. Se il post-moderno è un’era di creazione, affinamento e passaggio non vedo l’ora di assistere alle braci ardenti che porteranno l’Homo sapiens flagrans a diventare ed essere Homo sapiens viridens, perché no, non saranno i batteri estremofili mangia-idrocarburi a salvarci, e il pianeta Terra rinverdirà da sé: sta a noi, oggi (dato che ieri è già passato), decidere s’è ancora possibile avere voglia di far parte della reviviscenza, e goderne, o fare la parte dell’humus, del compost, delle ceneri.
Nel 1970 [...] qualsiasi alto dirigente nel settore energetico, manifatturiero, dei servizi pubblici, bancario, assicurativo e governativo che avesse rapporti con l'American Petroleum Institute sapeva che la concentrazione dell'anidride carbonica nell'atmosfera stava aumentando, e perché. Nel 1980 [...], con la piena conferma delle ipotesi scientifiche, non c'erano più scuse per non agire. E in effetti, l'Api e le sue affiliate agirono, dedicandosi attivamente a quello che il futurologo Alex Steffen chiama «dilazione predatoria», ovvero «il deliberato rallentamento del cambiamento, per prolungare una situazione lucrosa ma insostenibile il cui costo verrà addossato a qualcun altro». Intervistato dal New York Times, il geochimico Edward Garvey, che collaborò alle prime ricerche sul clima della Exxon, spiega che «le prove raccolte a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta erano già inequivocabili. L'occasione buona per intervenire l'abbiamo avuta e sprecata».
Poi, il Libro (Mappa) del Mondo (Umanità) consta di innumerevoli altri capitoli: ad esempio, a 350 km in linea d’aria verso nord-est da Fort McMurray, nel Saskatchewan, sulle rive del lago Athabaska, c’è… Uranium City.
John Vaillant - "Fire Weather: A True Story from a Hotter World" - Alfred A. Knopf, New York, 2023.
Edizione italiana: "L'Età del Fuoco - Una Storia Vera da un Mondo Sempre Più Caldo", Iperborea, I Corvi n. 6, Luglio 2024, Milano, 528 pagg., 22.00 €, traduzione di Luca Fusari.
* * * * ½/¾ - 9.25
«Questo non è il pianeta Terra come l’abbiamo trovato, ma un posto nuovo, un pianeta di fuoco creato da noi, con un’atmosfera che in tre milioni di anni non era mai stata così favorevole alla combustione.»
Con Roy Dupuis, Christian Vadim, Carlos Cruz, Wolfgang Preiss, Dora Mazzone, Antonio Cuevas
«In questo grande concatenarsi di cause ed effetti, nessun fatto può venire considerato isolatamente.» – Alexander von Humboldt, “Essai sur la Géographie des Plantes”, 1805.
In un caldo pomeriggio di primavera del 2016, a meno di una decina di chilometri dal recente insediamento petrolifero canadese di Fort McMurray, nell’Alberta, un piccolo incendio boschivo avvampò e si diffuse con rapidità in un’area di foresta mista dove il fuoco non si vedeva da decenni. Nelle sue prime ore di vita questo incendio, originatosi più lontano degli altri, si era comportato come la maggior parte degli incendi boschivi provocati dall’uomo: dal lontano punto di accensione aveva cercato timidamente di propagarsi a terra tra l’erba, le foglie morte e il materiale putrefatto, che per gli incendi sono l’equivalente della pappa per un bebè. In genere è la combinazione tra i primi materiali divorati e le condizioni meteorologiche a determinare l’evoluzione dell’incendio, che dopo aver covato nel sottobosco è destinato a spegnersi sotto la rugiada di una fresca notte primaverile senza vento oppure a diventare più grosso, resistente e dinamico, capace di trasformare la notte in giorno e il giorno in notte; di piegare il mondo alla sua volontà scatenata e vorace.
Era presto rispetto all’inizio della stagione degli incendi, ma la Guardia forestale non si fece trovare impreparata. Al primo avvistamento di fumo le squadre dei vigili del fuoco entrarono in azione, supportate da un elicottero e dai water bombers*. I primi ad arrivare sul posto rimasero scioccati da ciò che videro: quando l’elicottero riuscì a rovesciare il suo carico d’acqua il fumo era già nero e ribollente, sintomo di un’intensità insolita. Nonostante l’intervento tempestivo dei Forestali, l’area dell’incendio si estese da 16mila a oltre quattrocentomila metri quadrati in due ore. Di solito, al calare della notte, quando l’aria si rinfresca e si addensa la rugiada, gli incendi boschivi rallentano; l’indomani a mezzogiorno, invece, quello copriva già ottocento ettari di terreno e vegetazione. La sua rapida crescita coincise con un’ondata di caldo record nell’area subartica nordamericana, che il 3 maggio spinse la temperatura massima diurna oltre i 30 °C, contro una media stagionale di 15 °C. Quel giorno, un martedì, l’inversione termica che teneva a bada il fumo e il vento cessò, le raffiche d’aria soffiarono a venti nodi e il mostro scavalcò il fiume Athabasca.
In poche ore si scatenò attorno a Fort McMurray un’apocalisse di fiamme che per alcuni giorni attraversò la città da un capo all’altro. Interi quartieri andarono in cenere sotto un pirocumulonembo che per dimensioni sembrava uscito da un vulcano in eruzione: una vera e propria perturbazione generata dal fuoco, che scatenava correnti d’aria a velocità da uragano e fulmini in grado di innescare altri incendi a chilometri di distanza. Quasi centomila persone furono obbligate a fuggire, in quella che nella storia degli incendi rimane la più rapida evacuazione avvenuta in un solo giorno. Per tutto il pomeriggio, cellulari e videocamere registrarono le imprecazioni, le preghiere e il pianto dei cittadini che cercavano di scappare da un mondo che all’improvviso minacciava di distruggerli: pugni di calore martellavano le finestre, dal cielo pioveva fuoco, e l’aria prendeva vita fiammeggiando e tuonando. Quel giorno le alternative erano soltanto due, e drastiche: adesso, o mai più.
Dopo una settimana il bilancio dell’incendio era degno di un’esplosione nucleare: più che di «danni» si poteva parlare di annientamento. Cercando di descrivere ciò che aveva visto durante un’ispezione, una funzionaria disse: «Cerchi una casa, non la trovi, e al suo posto sai cos’è rimasto? Chiodi. Montagne di chiodi.» Più di 2500 case e altri edifici furono distrutti e diverse migliaia danneggiati; andarono a fuoco quasi seimila chilometri quadrati di foresta. Quando cominciarono a circolare le prime foto, l’incendio aveva già vomitato nell’atmosfera cento milioni di tonnellate di anidride carbonica, generate in gran parte da auto e case. L’Incendio di Fort McMurray, destinato a diventare la catastrofe naturale più costosa della storia canadese, non si spense dopo giorni, ma dopo mesi. Fu dichiarato ufficialmente estinto soltanto nell’agosto dell’anno successivo.
Gli incendi boschivi sono condizionati dal meteo, ma oggi «il tempo che fa» non è più quello del 1990 e nemmeno del 2000. Se a maggio del 2016 tutti parlarono di FortMcMurray non fu però soltanto per le dimensioni incredibili e la ferocia dell’incendio, ma anche perché – comel’uragano Katrina a New Orleans – il fuoco inflisse un colpo durissimo all’epicentro della multimiliardaria industria petrolifera canadese. Quel settore e questo incendio sono l’espressione ingigantita di due tendenze che da un secolo e mezzo vanno a braccetto. Insieme, incarnano la vertiginosa sinergia tra la corsa sfrenata allo sfruttamento a tutti i costi degli idrocarburi e il proporzionale aumento dei gas serra che intrappolano calore e alterano l’atmosfera. Nella primavera del 2016, a metà dell’anno che fu – provvisoriamente – il più caldo in assoluto da quando vengono registrate le temperature terrestri, si palesò al mondo un nuovo tipo di incendio.
«Non ho mai visto niente di simile», dichiarò in diretta nazionale il capo dei vigili del fuoco di Fort McMurray, esausto e addolorato. «Per come è nato, per come si è spostato, per come si è comportato, ha riscritto le regole.»
Se le mettessimo in fila, le condotte dell'Alberta riuscirebbero a collegare Fort McMurray alla Luna, e ne avanzerebbero ancora abbastanza da fare il giro dell'equatore. Alcune hanno un diametro di un metro e venti, e gran parte del petrolio che vi scorre viene estratto con metodi non convenzionali come la fratturazione idraulica (fracking), il drenaggio tramite vapore (Sagd), lo sbancamento (strip-mining).
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Una miniera di bitume non è un posto dove far giocare i bambini, ma impiega macchinari che qualunque marmocchio amante di modellini saprebbe riconoscere; e anche il livello di incosciente presunzione necessario a scavarla è degno di un bambino dell'asilo. Per accedere al bitume occorre innanzitutto eliminare la foresta che lo ricopre. È materia viva, ma nel linguaggio settoriale la si definisce «strato sterile» e va rasa al suolo con un bulldozer Caterpillar D11. Un D11 pesa oltre duecento tonnellate e ha una pala larga oltre sei metri; spiana la foresta come fosse un tagliaerba, ma questo è coerente con il gigantismo del Canada nord-occidentale. A fianco del D11 lavora il Komatsu D575A, il più grande bulldozer mai prodotto in serie. Rimossa la foresta, enormi escavatori elettrici estraggono la sabbia bituminosa sotto forma di massi che raggiungono le cento tonnellate di peso e talvolta contengono fossili completi di dinosauri del Cretaceo. L'ingombrante carico viene affidato a un «trasportatore», il Caterpillar T797, uno dei mezzi d'opera più giganteschi al mondo. È alto come una casa di tre piani e pesa seicento tonnellate, quando è scarico. Nelle miniere a nord di Fort McMurray lavorano centinaia di macchine come questa. Sono troppo grandi per l'autostrada, e arrivano a destinazione in pezzi: per trasportare i componenti di uno solo di questi mezzi servono dodici enormi camion rimorchio, che viaggiano con la scorta. Soltanto gli pneumatici sono alti quattro metri e costano 85mila dollari l'uno. Quando prendono fuoco - e succede più spesso di quanto si pensi, per via dell'attrito pazzesco che generano - vanno sgonfiati con un colpo di fucile sparato a distanza di sicurezza. Se uno di questi pneumatici da sei tonnellate dovesse esplodere avrebbe lo stesso impatto di una bomba. Il «trasportatore» ha il compito di portare le sabbie bituminose grezze al «tritatore», una specie di buco nero meccanico composto da due giganteschi cilindri pieni di borchie, in continuo movimento. Cercando di descrivere l'inesorabile voracità del macchinario, un operaio mi ha spiegato che «riuscirebbe a sbriciolare un autobus in tre secondi».
Nella prima metà del XIX secolo, l'epoca del suo massimo splendore, la Compagnia della baia di Hudson esercitava a tutti gli effetti un monopolio e gestiva centinaia di stazioni commerciali tra le due coste, oltre a «uffici» satellite in Alaska, alle Hawaii, in California e a nord dell'Artico. A una potenza simile ben si addice la definizione che il filosofo e politico Edmund Burke diede dell'analoga impresa nell'altro emisfero, la Compagnia delle Indie Orientali: «Uno stato travestito da commerciante.» In termini geografici, il territorio della Compagnia - pari a quasi il dieci per cento delle terre emerse - era il più grande impero commerciale mai sorto sulla Terra, e la sua rete di stazioni tracciò concretamente i confini di quello che oggi è, dopo la Russia, lo stato più grande del mondo.
A Londra i lontani e riservati «governatori» della Compagnia della baia di Hudson incassavano profitti spettacolari anche grazie all'imposizione di spietate norme di condotta che i loro mandatari scozzesi facevano coscienziosamente rispettare. Nel 1849 John M'Lean, un dipendente di vecchia data, scriveva:
Dal 1840 i dividendi sono in declino, ed è improbabile che tornino quelli di una volta; le ragioni sono diverse, ma la principale è lo sterminio degli animali da pelliccia. In certe zone del paese la Compagnia ordina di ucciderli lungo tutta la frontiera; e ci è stato intimato, più in generale, di fare tutto il possibile per devastarne il territorio, così da scoraggiare i piccoli commercianti a sconfinare nel territorio della Compagnia.
Tali ordini hanno finito per rovinare la terra senza tuttavia proteggere i possedimenti della Compagnia. Oggi la giudichiamo una condotta barbara, ma non è diversa, né all'atto pratico né in linea di principio, dalle strategie con cui le varie Standard Oil, Walmart, Amazon, Netflix o Uber hanno fatto fuori la concorrenza. All'inizio l'espansione delle multinazionali è proporzionale alla terra bruciata che si creano attorno; poi, raggiunte certe dimensioni, possono dettare le loro condizioni a un intero territorio anche se questo significa distruggere l'ecosistema che le aveva aiutate a crescere così in fretta.
La poderosa combinazione tra capitali offshore (spesso presi in prestito) e forza lavoro locale indebitata su cui si reggeva la Compagnia della baia di Hudson diede vita al Canada moderno: un allevamento di castori e al contempo una società commerciale continentale al servizio del settore europeo della cappelleria. Convertendo le pelli di castoro in valuta da scambiare con beni utili, attraenti e irresistibili, la Compagnia e i suoi aggressivi concorrenti trasformarono gli abitanti della foresta boreale, umani e non, in un'enorme e inaspettatamente redditizia macchina da soldi... finché non esaurirono la materia prima. Nel frattempo il commercio di pellicce fece in tempo a plasmare i miti canadesi delle origini e a stabilire un precedente al quale l'industria estrattiva continua a rifarsi. In questa prospettiva il Canada in generale e l'Alberta in particolare si possono definire «commercianti travestiti da stato», piuttosto che il contrario.
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Mentre la pratica quasi medievale del commercio delle pelli cedeva il passo all'era industriale, giungevano all'orecchio dei prospettori voci sul petrolio e sulle sue proprietà come combustibile. Presto cominciarono a drizzare le antenne ogni volta che un commerciante accennava alle bolle di metano in mezzo a cui aveva dovuto remare, o alle colate di bitume in cui era incappato. Oggi è ormai più di un secolo che la provincia dell'Alberta vede il proprio futuro scritto nel petrolio e, a tal fine, ha scavato tanti buchi quasi quanto ha fatto il Texas. Per la maggior parte erano asciutti, ma di tanto in tanto sgorgava una combinazione ribollente e scoppiettante di acqua salata, petrolio e/o gas naturale. Molto più di rado si scopriva un giacimento: la prima volta accadde sulle sponde dell'Athabasca, nella località di Pelican Portage, 130 chilometri a monte rispetto a Fort McMurray. Nell'estate del 1897 le trivelle del Geological Survey of Canada trovarono il vuoto a 243 metri di profondità e ne fecero sgorgare uno spettacolare fiotto di metano (gas naturale), pieno di frammenti di pirite di ferro che schizzavano verso il cielo come proiettili. Se ne udì il rumore - simile al rombo di un caccia militare - nel raggio di cinque chilometri. Secondo le stime, il pozzo avrebbe potuto produrre oltre 226mila metri cubi di gas al giorno: abbastanza da riscaldare ogni casa e palazzo nell'odierna Fort McMurray. Nel 1897, però, non avendo nessuno a cui venderlo e non sapendo né come catturare né come ricacciare nella lampada il genio esplosivo, i trivellatori fecero la scelta più sensata: gli diedero fuoco. Prima di esaurirsi definitivamente il pozzo bruciò a intermittenza per 21 anni: un altoforno nella foresta che giorno e notte, estate e inverno, mentre il grande fiume si congelava e scongelava, mentre il sole basso attraversava il cielo o risplendeva l'aurora boreale, ruggiva come il primo stadio di un razzo; i cacciatori di passaggio, meravigliati, andavano a scaldarcisi le mani.
Se abbiamo un superpotere - oltre al cervello, al pollice opponibile e alla parola - è proprio il fuoco. Senza la sua luce e la sua energia esplosiva e convogliabile non saremmo diventati ciò che siamo. Da quando esiste, il focolare è un elemento centrale della nostra vita, nel vero senso della parola: ci raduniamo attorno a lui, lo usiamo per cucinare e godiamo della sua luce. →
Con Everett McGill, Ron Perlman, Nicholas Kadi, Rae Dawn Chong, Gary Schwartz
→ La differenza tra un focolare in una grotta sudafricana un milione di anni fa e una lampada a gas, un motore, una pistola, un razzo o un raggio laser è soltanto questione di utilizzo e di combustibile; l'inizio di tutto, il potere che cambia il mondo, sta nell'energia che ha origine in natura, e che gli ominidi - noi - hanno imparato a controllare e a perfezionare. →
→ C'è un rapporto strettissimo fra i traguardi che abbiamo raggiunto nel percorso sempre più rapido che ci ha differenziati dalle altre scimmie antropomorfe e dai nostri avi, e la nostra capacità di focalizzare e concentrare questa feroce e potente «energia» (definirla «calore» è forse troppo blando, se pensiamo a cosa ha scatenato in noi e nel nostro mondo).
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Oggi gli scienziati riconoscono quasi all'unanimità che siamo entrati nell'Antropocene, l'epoca geologica dell'influenza umana sul clima e sugli ecosistemi globali. Rimane in discussione quando sia cominciata: cinquantamila anni fa, quando già eravamo in grado di annientare intere popolazioni di megafauna del Pleistocene? Dodicimila anni fa, all'alba dell'Olocene, considerata l'età dell'essere umano moderno? Diecimila anni fa, con la comparsa dell'agricoltura e delle città stato? Duemila anni fa, con l'accumulo dei residui inquinanti dei fonditori dell'antica Roma? 160 anni fa, con l'introduzione del motore a combustione interna? 75 anni fa, con l'introduzione della bomba atomica? Oppure un milione di anni fa, nell'epoca a cui risalgono le più antiche prove della nostra abilità di controllare il fuoco?
Senza il fuoco e i suoi cicli di ricomparsa - all'apparenza casuali ma in realtà regolari - la foresta boreale collasserebbe. In questa ciclicità c'è una sorta di dipendenza reciproca che, dal punto di vista del fuoco, ribalta l'idea di cosa sia la foresta, e a chi serva. Parlando di un ambiente simile, ma situato molto più a sud, il naturalista David Pitt-Brooke scrive: «In un certo senso, le macchie di Pinus con-torta seminate dagli incendi sono prigioniere di un ciclo di fuoco. Il fuoco le crea e, in cambio, esse pongono le condizioni necessarie al suo ritorno. La si potrebbe considerare una simbiosi [...], una forma di agricoltura: il fuoco crea le pinete per poterle mangiare*.»
*E, viceversa, le pinete sfruttano il fuoco per potersi propagare; NdA.
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Io sono nato negli anni Sessanta, ma ho conosciuto di persona gente nata negli anni Settanta e Ottanta dell'Ottocento, quando l'industria del petrolio era in fasce e la Standard Oil una startup. A quell'epoca la Guerra civile, combattuta con la forza degli uomini e dei cavalli, era un ricordo doloroso e recente; la regina Vittoria guidava un impero sostenuto dal traffico navale, e i visionari climatologi Svante Arrhenius e Arvid Högbom andavano al liceo. Nel 1875 Chicago si stava ancora riprendendo dal suo grande incendio, la battaglia di Little Big Horn non era ancora stata né vinta né persa, e gli esploratori boreali fantasticavano sulla possibilità che un giorno l'uomo potesse trarre profitto dal bitume dell'Alberta. Sulle strade del pianeta camminavano – nel vero senso della parola, perché le automobili non esistevano un miliardo e trecentomila persone. Non esisteva neanche la plastica, e la Curva di Keeling aveva appena cominciato la sua implacabile ascesa. Quel mondo - il mondo in cui nacquero persone che ho preso per mano da bambino – è vicinissimo nel tempo (le ho guardate negli occhi, le ho sentite respirare) ma, sotto l'aspetto della chimica, della biologia, dell'atmosfera, della tecnologia, dell'Antropocene, lontanissimo dal mondo di oggi, il mondo che stiamo distruggendo, il mondo che i nostri figli erediteranno e che somiglia sempre meno al mondo che ha dato la vita a noi.
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Dobbiamo il nostro successo (e le nostre emissioni) senza precedenti alla perizia con cui padroneggiamo il fuoco e, in seconda battuta, a come abbiamo sfruttato i combustibili fossili nelle più svariate forme. In termini di impatto sulla vita terrestre, il nostro breve esperimento di civiltà basata su questo tipo di combustibili è, in sostanza, un progetto di diffusione di carbonio ad alta intensità. È quello che fa anche la natura con le foreste e i vulcani, ma non è efficiente né veloce quanto lo siamo diventati noi. Ogni anno l'industria mondiale riversa nell'atmosfera dieci gigatonnellate (una gigatonnellata equivale a un miliardo di tonnellate o, pressappoco, al peso di tremila grattacieli grandi come l'Empire State Building) di carbonio sotto forma di carbone, petrolio e gas estratti dalla crosta terrestre. La velocità a cui avviene il processo è più o meno dieci volte maggiore rispetto alla media riscontrata dai geologi negli ultimi 250 milioni di anni, e di circa cento volte superiore a quella dei sistemi naturali nella più recente epoca preindustriale. Questo è il ricordo che la Terra serberà di noi: grazie al fuoco, e alla brama per l'immensa energia che da esso ricaviamo, ci siamo evoluti in un evento geologico che tra milioni di anni sarà ancora misurabile.
Schmitte e Vandenbreekel stavano assistendo in diretta radiofonica a qualcosa di simile al momento in cui Hal, il computer che coadiuva gli astronauti in "2001: Odissea nello Spazio", si scopre senziente* e prende il comando della nave spaziale. Nel gergo dei vigili del fuoco è il momento del crossover, della trasformazione. Per un incendio boschivo e per tutto ciò che incontra rappresenta un punto di non ritorno.
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Quando un incendio boschivo si sviluppa in condizioni meteo ottimali arriva un momento in cui ciò che prima richiedeva uno sforzo diventa quasi automatico; un momento in cui a tutti gli effetti il fuoco dice, come Hal: «Grazie, adesso ci penso io.»
*Non è proprio così, non è solo così, ma il paragone con l’incendio è… illuminante.
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«Gli uomini sono diventati strumenti dei loro stessi strumenti.» – Henry David Thoreau.
Nel suo delizioso e illuminante libro "La Botanica del Desiderio", Michael Pollan racconta come quattro piante locali dalle caratteristiche piacevoli e utili - la patata, la mela, il tulipano e la marijuana - sono riuscite a sfruttare l'essere umano per diffondersi in tutto il mondo, modificandolo. Il fuoco è l'esempio più eccelso di questo «addomesticamento» del desiderio. Noi esseri umani stiamo facendo per il fuoco ciò che gli isolani delle Orcadi e gli esploratori fecero per la Compagnia della baia di Hudson, e che i terranovani hanno fatto per l'industria del bitume: siamo i suoi volenterosi servi, lavoriamo per un compenso che è una miseria, se paragonato ai «profitti» favolosi e capaci di cambiare il mondo (l'aumento dell'infiammabilità e dell'anidride carbonica) che le nostre fatiche gli fruttano. Per quanto interessa alle piante di Pollan o al nostro fuoco, gli esseri umani non sono che ospiti zombi che ne disseminano obbedienti i semi, i bulbi, le scintille e i gas in tutto il globo. Alla fine il repertorio geologico mostrerà che saremo stati noi a obbedire al fuoco e a consentirgli di ardere più grande e luminoso che mai. È stato il fuoco, fin qui, a padroneggiare noi. Siamo ancora lontanissimi dal livello di anidride carboni-ca e dalle temperature del Permiano, ma ci stiamo avviando di buona lena a replicare le condizioni del molto più recente «Periodo caldo» di metà Pliocene, che terminò tre milioni di anni fa.
[...]
Il futuro immediato - la prossima decina d'anni, più o meno - sarà una sorta di test definitivo: saremo capaci noi, miliardi di esseri che fremono e bruciano, di trovare un equilibrio con la capacità biologica del pianeta e i processi naturali che assorbono il metano e l'anidride carbonica? Le creature perdute del Permiano superiore non ebbero scelta né possibilità di intervenire, e lo stesso vale per ogni specie vivente di oggi, tranne noi. La situazione attuale è la sfida più grande che l'umanità abbia mai affrontato da quando imparò a padroneggiare (o quasi) il fuoco. Ma dovremo imparare a padroneggiare noi stessi, questa volta. Ogni nostro fallimento alzerà sempre più la posta e costerà più caro. L'aspetto positivo è che la vita, in una forma o nell'altra, ha sempre avuto la meglio sugli impulsi sregolati e voraci del fuoco e sui suoi più longevi prodotti di scarto come la cenere, il metano e l'anidride carbonica. Che alla fine del Petrocene ci sarà ancora la vita è indubbio; meno facile è prevedere quanta, dove, e quella di chi.
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Altro cinema citato nel testo: Orson Welles (il radiodramma tratto da "La Guerra dei Mondi" di H.G. Wells), "Zombieland" e, un paio di volte, "Mad Max".
Ci sono immagini, suoni, frammenti di percezione che troviamo istintivamente fuori posto, che toccano la nostra sensibilità primordiale, animale, e ci dicono che è ora di scappare, e in fretta. Può essere il timbro di una voce, o il sibilo di una folata di vento; lo stridio di un'auto che inchioda, un aereo che sobbalza o il gesto improvviso di uno sconosciuto; può essere la grandezza, il colore e la vicinanza di una nuvola di fumo. Per queste situazioni non c'è una soglia fissa, un limite prestabilito; quello che succede è piuttosto l'equivalente sensoriale di un crossover, un istante che fa scattare l'allarme rosso, e in questo siamo più o meno tutti uguali. A Fort McMurray, a partire dalle 12.30, l'istante decisivo scoccò per tutti quelli che alzarono lo sguardo verso sud.
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Un altro fatto preoccupante era che queste trasformazioni avvenissero a meno di dieci gradi di latitudine dal Circolo polare artico all'inizio della primavera, quando i laghi e le rive dei fiumi erano ancora ghiacciati e soltanto una settimana prima si erano registrate temperature sotto lo zero. Fort McMurray obbediva ormai a leggi diverse dal resto del mondo subartico. La città e il territorio circostante erano diventati qualcosa di simile a un pianeta di fuoco: più che un bioma, un «piroma», il cui scopo non era alimentare la vita ma rendere possibile la combustione.
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Alle 18 la stazione meteorologica di Mule Mountain registrò una temperatura di 43,8 °C e un tasso di umidità del sette per cento.
«Poi, attorno alle otto meno venti di sera», racconta Bustillos, «abbiamo visto che l'incendio attraversava il fiume. Fu assurdo, praticamente lo saltò.»
A quanto pare, transizioni così agevoli - al di là di fiumi, autostrade e barriere tagliafuoco - si verificano sempre più spesso.
Nell'estate del 1771 Priestley effettuò una serie di esperimenti con dei topolini vivi: li metteva sotto una campana di vetro che poi sigillava immergendola in una pentola d'acqua. In quell'ambiente i topi morivano in fretta, talvolta dopo po-chi secondi. Ma perché? «Allorché una certa quantità d'aria è resa nociva dagli animali che la respirano», scriveva, «non mi risulta che sia stato scoperto in che maniera la si possa rendere di nuovo idonea alla respirazione.»
Partendo da questo presupposto, Priestley giunse a un'intuizione straordinaria: «È evidente, tuttavia, che a ciò la Natura abbia provveduto, oltre che a una maniera di rendere l'aria idonea ad alimentare il fuoco, altrimenti l'intera massa dell'atmosfera diverrebbe, col tempo, inidonea alla vita animale [e al fuoco].»
Come i suoi colleghi dell'epoca, nel tempo libero Priestley impiegava strumenti mondani per esplorare lo spazio profondo dell'ambiente che li racchiudeva: i misteri invisibili e intangibili che fino a quel momento erano stati appannaggio esclusivo di Dio e dei suoi ministri. Non si sa se i suoi vicini lo considerassero un vero eretico, ma di sicuro in molti giudicavano inutili le sue ricerche. In fondo non c'era «niente da vedere», nel vero senso della parola. Priestley riassunse questo paradosso in un'osservazione su Isaac Newton: «Avendo scarsa conoscenza dell'aria, nutriva pochi dubbi al riguardo.»
Sebbene non esistano barriere tangibili tra l'occhio umano e la più lontana stella visibile, Priestley intuì che la nostra atmosfera, oltre che modificabile, era una quantità finita: un sistema forse non chiuso, ma sicuramente molto ben isolato, come la sua campana di vetro. Per verificare il comporta-mento di altre forme di vita nell'aria putrefatta» introdusse una piantina di menta nella campana ermetica dove poco prima era morto l'ennesimo topolino. Nell'aria «flogisticata» ein teoria inerte la menta sopravvisse per giorni, che diventarono settimane. Priestley continuò l'indagine mettendo una piantina di menta nella campana di vetro dove si era spenta una candela, e ottenne il medesimo risultato. Considerato che le condizioni in cui i topi morivano e le fiamme si spegnevano erano identiche, ma non sortivano effetti negativi sulla pianta, Priestley si domandò quale fenomeno nascosto, e tuttavia evidente, avvenisse dentro le campane. Dopo una settimana sigillò un topolino insieme alla menta. Anziché morire subito come gli altri, l'animale sopravvisse quanto bastò a Priestley per osservarlo, farlo uscire e metter-lo in una seconda campana piena d'aria viziata, dove non sopravvisse. Rifece l'esperimento con la menta e una candela. che vide bruciare più a lungo. «Queste osservazioni», scrisse poi nella sua fondamentale opera "Experiments and Observations on Different Kinds of Air", «mi portano a concludere che, anziché produrre nell'aria lo stesso effetto della respirazione animale, le piante lo invertono, e tendono a mantenere l'atmosfera gradevole e sana, allorché diventa nociva.»
Grazie alla forza della sua curiosità e al potere della deduzione, e servendosi di strumenti raccattati nella cucina di sua moglie e nel ripostiglio degli attrezzi, oltre che di metodi che persino un dodicenne sveglio saprebbe padroneggiare, Priestley individuò una serie di legami tra fuoco, piante e aria che, inevitabilmente, lo guidarono verso l'ossigeno e, in secondo luogo, l'anidride carbonica.
A detta di Priestley l'obiettivo dei suoi provocatori esperimenti era «sollecitare l'attenzione degli ingegnosi». E tra tutti gli «ingegnosi» attivi alla fine del XVIII secolo è difficile trovarne uno più sensibile di Benjamin Franklin. Grazie a una meravigliosa coincidenza, nel giugno del 1772 Franklin fece visita a Priestley proprio mentre stava portando a termine i suoi esperimenti con la piantina di menta. In seguito gli scrisse: «Si direbbe un sistema razionale, quello che consente alla creatura vegetale di ripristinare l'aria viziata dalla parte animale [...]. L'aspetto forte e florido della vostra menta nell'aria putrida sembra indicare che l'aria guarisca perché la si priva di qualcosa, anziché aggiungervi ulteriori elementi.»
Animato da un potente mix di intuizione, dati da elaborare e incontri con Priestley sostenuti da ingenti dosi di caffeina, Benjamin Franklin stava ormai ipotizzando la fotosintesi, il «sistema razionale» che aveva consentito alla menta di «guarire» l'aria «privandola di qualcosa», cioè dell'anidride carbonica. Gli sfuggì per un soffio che la piantina guariva l'aria anche aggiungendole qualcosa: l'ossigeno. Priestley, intanto, ci era andato vicinissimo. Sotto le piccole cupole di vetro, tanto simili alla nostra atmosfera, di tentativo in tentativo, stava scassinando la cassaforte che conteneva i segreti della vita sulla Terra. Oltre a simularla in un microcosmo, aveva capito - 250 anni fa - che l'atmosfera terrestre si può contaminare ma anche depurare, e che l'intervento umano può renderla vitale o letale.
Con John Nesbitt, Shepperd Strudwick, Rudolph Anders, King Baggot, William Bailey
Ci siamo evoluti a terra, in piccole comunità, e siamo ancora attaccati a questa dimensione. Quando si parla di atmosfera questo tratto innato viene fuori in tutta la sua evidenza. Sebbene le cause e gli effetti dei gas serra siano noti tanto quanto le cause e gli effetti della scarsa igiene, c'è ancora un sacco di gente che fatica a considerarne l'impatto, o che non riesce o non vuole accettare che a ingigantirlo siano soprattutto le attività umane. Non è fuori luogo mettere sullo stesso piano la produzione di gas serra e l'igiene personale, considerato il legame di quest'ultima con il Petrocene. Fu soltanto a metà del XIX secolo, infatti, che un medico occidentale constatò che lavarsi le mani allungava la vita. Si chiamava Ignác Semmelweis, era un ostetrico viennese e nei parti seguiti dalle levatrici noto un numero di infezioni minore rispetto a quel. li seguiti dagli ostetrici. Si domandò il perché e osservò che le le-mentre i medici dell'ospedale manipolavano pazienti malati o infetti di ogni genere, per non parlare dei cadaveri, le levatrici si concentravano soltanto sulle mamme e sui bambini. Esclusa ogni altra possibilità, Semmelweis concluse che l'unico legame concreto tra i malati o i morti e le puerpere erano le mani dei dottori, e lo spezzò lavandosele in maniera sistematica prima di ogni parto. Il tasso di infezioni tra le sue pazienti ebbe un calo drastico, e questo convinse Semmelweis a istituzionalizzare la prassi di lavarsi le mani.
Convinto del legame che aveva scoperto ma incapace di darne una spiegazione, Semmelweis cercò di convincere altri medici a seguire il suo esempio. Poco esperti di microbi (nonostante il microscopio fosse uno strumento di uso comune) e convinti di essere nel giusto, i suoi colleghi maschi lo snobbarono, e le madri e i neonati continuarono a morire per cause evitabili. Semmelweis insistette, ma subì l'ostracismo dei colleghi e fu costretto ad abbandonare Vienna. Con il passare degli anni divenne sempre più frustrato, acido e, alla fine, fuori controllo. Nel luglio del 1865, 18 anni dopo aver scoperto il nesso tra mani lavate e salute delle mamme e dei neonati, fu attirato con una scusa in un manicomio viennese, e poi picchiato e rinchiuso. Pare che a ucciderlo, due settimane dopo, fu l'infezione a una ferita causata dal pestaggio.
La riabilitazione di Semmelweis giunse dopo il 1880, quando grazie alle rivoluzionarie scoperte di Robert Koch e Louis Pasteur la comunità medica diede ampio credito alla teoria dei germi. Da allora non c'è società funzionante al mondo in cui lavarsi le mani non sia diventato un gesto automatico, Se fosse diventata una questione politica, o se qualcuno avesse potuto lucrare sullo scetticismo riguardo all'esistenza dei microbi, oggi le nostre condizioni di salute generale sarebbero ben altre. Forse, se ce ne avessero par-lato prima del 2020 ci avremmo riso su: invece, l'ostilità verso certe elementari norme di igiene pubblica durante la pandemia da Covid-19 è un esempio lampante e con-temporaneo di quanto sia pericoloso, per i singoli e per la collettività, politicizzare la scienza e chiudere gli occhi davanti a prove inoppugnabili. La proliferazione dell'anidride carbonica è persino più facile da prevenire rispetto a quella dei germi, e l'incapacità di controllarla ha innescato un altro genere di «febbre pandemica». Come puro e semplice principio, la relazione tra la proprietà della CO, di intrappolare il calore e il riscaldamento dell'atmosfera già era nota decenni prima che il dottor Semmelweis cominciasse a lavarsi le mani. E fu esplorata e dimostrata nei minimi dettagli ben prima che fosse adottata la teoria dei germi.
Con Richard Carlson, Frank Baxter, Bernard C. Hunt, Mel Blanc, Hans Conried, Jay Novello
Per quanto si trattasse di idee nuove e provocatorie, si fecero diversi sinceri tentativi di diffonderle al vasto pubblico. Oggi sembra sorprendente, ma nel 1958 il potenziale distruttivo della CO₂ nell'atmosfera si studiava nelle scuole pubbliche americane. A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta il regista Frank Capra ("La Vita è Meravigliosa", per citare un suo film) realizzò in collaborazione con la Bell Telephone (poi AT&T, la Standard Oil delle telecomunicazioni) una serie di cortometraggi divulgativi che furono trasmessi dalle tv nazionali e ampiamente distribuiti nelle aule scolastiche. Mescolando, alla moda dell'epoca, riprese con attori in carne e ossa e sequenze a cartoni animati, The Unchained Goddess (La Divinità Scatenata), del 1958, racconta la storia di Meteora, una dea del clima dalle fattezze alla Rita Hayworth, che si innamora di un calvo e occhialuto dottor Frank Baxter, un leggendario (e autentico) professore della University of Southern California. Nel corso del film Baxter, persona davvero deliziosa, spiega la scienza e la meccanica del tempo atmosferico, e conclude avvertendoci che «con i prodotti di scarto della sua civiltà, senza volerlo l'uomo rischia di alterare il clima del mondo». Mentre il professore parafrasa la ricerca di Gilbert Plass e l'entusiasmo di Roger Revelle, vediamo drammatiche immagini di ghiacciai che si sbriciolano sovrapposti a ciminiere fumanti, ingorghi stradali e animazioni del mare che inonda le coste degli Stati Uniti. La divinità scatenata, finanziato e distribuito da una delle più grandi e potenti aziende americane, fu visto da de-cine di milioni di giovani baby boomers.
Quanto a enfasi e lusinghe, il tono del pezzo [di Robert Dunlop, direttore dell'API, l'American Petroleum Institute, e presidente della Sun.O.Co., la Sun Oil Company di J. Howard Pew; NdA] era degno del Don Draper di Mad Men quando presenta una nuova campagna pubblicitaria ai suoi clienti: «Molti derivati del petrolio giungono a noi nei modi più svariati, per esempio sotto forma di buste di plastica per la spesa, o di calze che avvolgono una bella caviglia. Ormai sono anni che riscaldo casa mia con la nafta, ma non ho la minima idea del suo aspetto [...] e se ho visto la benzina è stato soltanto per la disattenzione di un addetto del distributore.»
Per come lo descriveva (e lo vendeva) Fischer, il petrolio era un'entità indefinibile e seducente che compiva grandi miracoli dietro le quinte e nella beata ignoranza dei suoi consumatori, e diventava visibile soltanto se i suoi padroni (molti dei quali erano presenti [al convegno organizzato con la Graduate School of Business della Columbia University dall'API alla Low Library di New York per celebrare il centenario della scoperta/costruzione del Drake Well; NdA]) lo permettevano.
Il vero ospite d'onore della giornata era Edward Teller, attesissimo da tutti i presenti, che senz'altro lo conoscevano bene. Era un genio, il genio controverso che nel 1964 ispirò a Stanley Kubrick "Il dottor Stranamore". Al contrario di molti suoi colleghi, prima coinvolti nello sviluppo della bomba atomica e poi disgustati dalla distruzione di Hiroshima e Nagasaki, Teller - immigrato ebreo fuggito dal regime fascista in Ungheria - era entusiasta all'idea di costruire armi ancora più potenti. Ma Dunlop, petroliere di professione e capitalista convinto, non lo aveva invitato a New York per parlare di etica. Nei trenta minuti del suo ondivago intervento, «Tendenze dell'energia nel futuro», Teller riuscì a mettere insieme - e in questo fu il primo e probabilmente l'unico - le esplosioni termo-nucleari, il cambiamento climatico e le sabbie bituminose.
Come Pew e Dunlop (e Fred Koch), Teller era consapevole che il mondo aveva sempre più fame di energia, e che andavano esplorate nuove fonti di approvvigionamento di-verse dal petrolio e dal carbone. Il potenziale dell'energia atomica era promettente ma, piuttosto che con le centrali, Teller suggeriva di sfruttarlo con le bombe, secondo l'iniziativa postbellica del progetto Plowshare di cui era alfiere, ovvero «l'utilizzo pacifico non soltanto dell'energia nucleare, ma delle esplosioni nucleari», come lo definì quel pomeriggio. Oggi è difficile leggere (o scrivere) certe frasi senza impallidire, ma la Guerra fredda era tutta un'altra epoca, e i poteri semidivini assicurati dall'energia atomica una sorta di sommo progresso prometeico - irradiavano un fascino irresistibile, specialmente per Edward Teller. «Le esplosioni nucleari sono potenti e costano poco», spiegò al suo pubblico di affaristi. «Con l'aiuto degli esplosivi nucleari si potrebbe far saltare in aria il centinaio abbondante di metri di strato sterile che copre un giacimento di scisto. Potremmo accedere alle sostanze viscose o solide come le sabbie bituminose [...]. Sono sogni, ma in qualche misura si potrebbero avverare, se solo ci fosse consentito di fare esperimenti sugli effetti delle esplosioni nucleari.»
Lo si sente quasi vibrare di desiderio. Intanto Dunlop, ben consapevole di quanto fossero intrattabili le sabbie bituminose dell'Alberta, ascoltava con attenzione. Ma ecco giungere il caveat di Teller riguardo allo sfruttamento dei combustibili fossili: «Vorrei [...] citare un altro motivo per cui sarebbe forse opportuno cercare combustibili alternativi», disse. «Si tratta, strano ma vero, della contaminazione dell'atmosfera [...]. Ogni volta che bruciamo combustibile tradizionale creiamo anidride carbonica [...]. L'anidride carbonica è invisibile, trasparente, inodore, non è pericolosa per la salute: e allora perché preoccuparcene?»
Oltre a essere direttore e fondatore del Lawrence Livermore National Laboratory, Teller insegnava fisica alla University of California di Berkeley. Era abituato a frequentare persone intelligenti e istruite e sapeva comunicare con loro. Se si senti in dovere di fare una lezioncina sull'anidride carbonica a quel pubblico così elitario, doveva essere proprio convinto che ce ne fosse bisogno. «L'anidride carbonica ha una proprietà strana», spiego. «Trasmette la luce visibile ma assorbe le radiazioni infrarosse emesse dalla Terra. La sua presenza nell'atmosfera crea un effetto "serra" che consente ai raggi del sole di entrare ma, in qualche modo, impedisce alle radiazioni terrestri di disperdersi nello spazio. Il risultato è che la Terra continuerà a scaldarsi, finché non si ristabilisce un equilibrio [...]. È stato calcolato che un innalzamento della temperatura proporzionale all'aumento del dieci per cento dell'anidride carbonica basterebbe a sciogliere le calotte glaciali e a sommergere New York. Tutte le città costiere verrebbero inondate, e dal momento che una considerevole percentuale degli esseri umani vive nelle regioni costiere penso che questa contaminazione chimica sia più seria di quanto la maggioranza delle persone tenda a credere.»
Teller citò le recenti indagini di Roger Revelle, ma le domande del pubblico chiarirono che molti dei presenti, forse tutti, non avevano mai sentito parlare dell'effetto serra, Courtney Brown, rettore della Graduate School of Business della Columbia, ne fu palesemente turbato: «Le andrebbe di farci un breve riassunto del rischio legato all'aumento dell'anidride carbonica atmosferica nel secolo attuale?» chiese.
Teller gli rispose con parole comprensibili a qualunque newyorkese medio: «Quando la temperatura salirà davvero di qualche grado in tutto il mondo», disse, «può darsi che le calotte glaciali si sciolgano e il livello degli oceani si innalzi. Ecco, io non so dirle se sommergeranno o no l'intero Empire State Building, ma chiunque può fare il calcolo guardando una carta geografica e tenendo presente che le calotte glaciali della Groenlandia e dell'Antartide sono spesse circa 1500 metri.»
Possiamo soltanto immaginare l'allarme di Brown nel sentirselo spiegare, non una ma due volte. Per diverse persone quella fu senz'altro una scoperta scioccante, il cui unico precedente era la storia dell'Arca di Noè. Il dato di fatto è che una profezia così funesta, pronunciata da un così eminente scienziato, non poteva non risultare sgradita ai petrolieri o agli investitori, e quel giorno ad ascoltare Teller ce n'erano molti. Nel dopoguerra, l'energia in tutte le sue forme era una virtu; era abbondante, poco costosa e molto diffusa, e gli Stati Uniti ne avevano fatto la base della più florida economia mai vista al mondo. Negli anni Cinquanta non esistevano vere e proprie leggi contro l'inquinamento perché, tra le altre cose, imporre limiti - allo sviluppo dell'energia, alla tecnologia, a pressoché qualunque tipo di crescita - era considerato antiamericano, una specie di eresia laica per cui si rischiava di essere sospettati di simpatie comuniste (o «ambientaliste», come aveva detto il deputato Thomas a Roger Revelle).
La caparbia ottusità (o il profondo cinismo) del settore petrolifero ai tempi della Guerra fredda è ben rappresentata dalla grottesca campagna pubblicitaria della Humble Oil, una sussidiaria della Esso/Exxon, apparsa sulle pagine di Life prendendo spunto dal sinistro avvertimento di Teller.
Con il senno di poi potremmo considerare il Congresso sull'Energia e l'Uomo del 1959 un momento in cui individui dotati dei mezzi e del potere di fare qualcosa decisero di fare finta di niente.
“Una compagnia commerciale asservì una nazione composta da duecento milioni di persone.” - Da “Lettera a un Indù”, 14 dicembre 1908, di Lev Tolstoj, citato da William Dalrymple in esergo a “the Anarchy - the RelentLess Rise of the East India Company”, 2019.
“Quando il prezzo del petrolio è alto il fracking conviene, altrimenti intervengono i sussidi statali per compensare le perdite perché un’alternativa al petrolio non la si vuole ancora.”
Con Volker Spengler, Janos Derzsi, Erika Bók, Mihály Kormos, Ricsi
«Il più grave fallimento della razza umana è l'incapacità di capire la funzione esponenziale.» – Albert Allen Bartlett, “Arithmetic, Population and Energy: Sustainability 101”, 2005.
Come scrive il matematico Aubrey Clayton, «la crescita esponenziale è problematica perché implica che la maggior parte del cambiamento sia sempre già avvenuta».
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