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Alice nelle città

Regia di Wim Wenders vedi scheda film

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La recensione su Alice nelle città

di Azrael
9 stelle

Uno stanco blues risuona da un locale di terz'ordine affacciato sulla strada, il suono che viene in parte ostruito dai rumori all'esterno. Solo una pausa da un viaggio verso nessuna meta. Quando ci si affaccia dal finestrino dell'auto le cose, i palazzi, le persone svaniscono una dopo l'altra allo sguardo. L'impressione di un'immagine si insedia nella memoria per qualche istante per poi scomparire e fare spazio ad altre immagini nel loro scorrere perpetuo. 

 

Un film dalla strada e sulla strada (Kerouac avrebbe apprezzato) che cattura nel modo più profondo il senso del viaggio come meta, ma anche una riflessione sul cinema come movimento incessante. A partire dallo sviluppo della sceneggiatura, in larga parte improvvisata nel corso della riprese e senza seguire pedissequamente un copione. Wenders ritrova quel senso del cinema come racconto di un qualcosa che si da in movimento e lo fa in questa storia dal canovaccio di una semplicità disarmante: l'amicizia commossa e leggera di un adulto con una bambina, in un viaggio alla ricerca del nulla attraverso luoghi sconosciuti. Una storia in grado di veicolare messaggi di grande spessore esistenziale con la massima semplicità. Un capolavoro, a mio dire, che insieme a Nel corso del tempo rappresenta un manifesto del nuovo "cinema libero" tedesco. 

 

In apertura immagini di un aereo sul cielo bianco, poi il mare. Una simbologia di immensità, che è anche quella di fronte alla quale il singolo è disperso. La modernità è giunta e ci si perde dentro di essa. Accordi di chitarra dal gusto psichedelico accompagnano la cinepresa che dall'immensità dell'orizzonte si abbassa su di un uomo, intento a scattare foto sotto un pontile vicino alla riva del mare. Si scoprirà che la fotografia ha per l'uomo un ruolo preciso, un mezzo per la comprensione del mondo che lo circonda. Le immagini cristallizzate nelle foto sono testimonianze del proprio essere ed esserci nel mondo. La foto all'orizzonte che si staglia oltre la riva è simbolo di un senso che non può essere ritrovato. L'estraneità dell'uomo nei confronti di se stesso ed una futile ricerca per ritrovarsi. 

 

Al primo stacco di montaggio subito la strada e il suo costante scorrimento. Raramente la cinepresa si ferma nell'inquadrare oggetti immobili, ma prosegue sempre in movimento. Si vuole mimare la vista dal finestrino dell'auto, o di un treno. Anche gli zoom avvengono in movimento. La strada ha un ruolo cruciale: elemento presente in quasi ogni scena, sullo sfondo. L'ambientazione del film si sposa con questo senso del movimento e del viaggio: motel, ostelli, alberghi, fast-food, periferie urbane e le persone che abitano questi luoghi. Non c'è uno spazio definito e preciso, perché la scena si muove con i personaggi. Inquadrature in prima persona che scorrono all'indietro, verso lo spettatore, oppure in avanti per catturare ciò che mostra la strada. Si vuole mettere in scena il senso dello spostamento e della lontananza, del lasciare un luogo per un altro. Mentre tutto rimane fermo, il senso del viaggio. 

 

Un motivo rockabilly fa capire subito che ci si trova negli USA. l'America è la nuova frontiera della modernità, di un modo di vivere sempre più veloce che lascia poco spazio all'essere e alla contemplazione in favore di una velocità incessante. La prima parte del film è infatti caratterizzata dalla presenza massiccia di cartelloni pubblicitari, luci al neon, grattacieli, traffico. Un senso di perdizione nei confronti di una realtà che scorre senza nessuna tregua, la difficoltà nel ritrovarsi in questa dimensione caotica. 

 

A cosa stai facendo le foto? (domanda un ragazzino) Non mostra mai cosa vedi! (imprecazione di Philip - questo il nome dell'uomo - rivolta alla macchina fotografica) 

 

La televisione, i nuovi media, mezzi di trasmissione di informazioni sempre più rarefatte. Il segnale va e viene, i canali cambiano di continuo. Fuori, vivissime luci al neon. La pubblicità: vogliono qualcosa da te, immagini che non rimangono stabili e che mentono. In questa prima parte notevole è la presenza di orologi, l'orario che deve essere tenuto d'occhio e non può sfuggire, oppure di telefoni. L'interconnessione, ma anche la perdita del se. New York, rumori di organo la cui provenienza non è chiara. Palazzi talemente alti da non vederne la cima. Philip è un reporter per un giornale tedesco che deve scrivere una "storia", la ricerca forsennata di un'esperienza. Essa si dovrà dare spontaneamente, come Philip afferma questa crisi interiore forse è già "parte della storia"(e avrà ragione). 

L'incontro con una donna, conoscente di Philip, lo aiuterà a chiarire il proprio dramma: egli ha smarrito se stesso, ha sempre bisogno di una prova (o conferma) della propria esistenza. La fotografia come terapia, una via per provare l'esistenza delle cose.

Il senso della realtà e sfuggito (e fuggevole in questa caoticità), ma è sfuggito proprio perché lo si ricercava. 

 

La paura. Quale tipo di paura? Ho paura della paura (dialogo tra Philip e Alice più avanti nel film, che descrive bene il tipo di precarietà sentimentale dell'uomo). 

 

La volontà do tornare in Europa, un incontro fortuito con una giovane donna e la figlia. Questo incontro del tutto casuale si rivelerà l'esperienza che Philip andava cercando. Il rapporto tra l'uomo e la bambina (che viene abbandonata dalla madre in fuga verso l'ex amante) nasce come una faccenda di contorno per poi mutare (anzi, scoprirsi) nella materia principale. Il ritratto della bambina (Alice) è tra i migliori mai visti al cinema, proprio in virtù di questa caratteristica di contingenza che caratterizza il rapporto tra i due, a partire dagli occhi esterni di lui (adulto). Il non-comprendere della bambina rappresenta anche la sua forza, perché caratterizzato dalla massima spontaneità. Una presenza leggera, che scansa abilmente ogni facile moralismo (tipico quando si esplora un rapporto di amicizia adulto-bambino). I sogni non contano, solo le cose che esistono davvero: la frase che lei pronuncia non appena tornati in Europa sarà ciò riporterà Philip a terra, riusciendo a ristabilire il proprio legame con la realtà e con se stesso. 

In compagnia di queste due persone, come esuli nella propria patria comune (l'Europa), non ci si sente soli. Lo spettatore "accompagna" i due nella loro ricerca in tempo reale. Anche la prima vera foto a Philip verrà scattata da Alice, il suo riflesso sulla plastica della lucida della fotografia sancisce l'inizio del (vero) viaggio. 

 

Il canovaccio della ricerca della nonna di Alice è semplice pretesto per questo viaggio verso una meta che sfugge. La scena del lungo elenco delle città, da cui deriva il titolo del film, richiama a questa dimensione aperta di smarrimento e di ricerca. 

Le case e i quartieri, nel loro scorrere seguendo la strada, il focus sul movimento si fa ancora più intenso. Sequenze quasi alienanti con la musica dei Can che scandisce questo scorrere continuo dal sapore un po' nauseante. Altre case, zone industriali di periferia, brevi sprazzi di campagna, bambini su tricicli, altre persone che passano. Lo scorrere delle immagini e delle persone che abitano luoghi sconosciuti. Barlumi fugaci di vite altrui, che continuano ad alternarsi come quando si guarda fuori dal finestrino. Il film riesce a catturare questa strana sensazione, questo cambio di prospettiva nel modo in cui le cose appaiono durante un viaggio rispetto alla loro immobilità della vita quotidiana. Questo senso del viaggio come ricerca, che cattura una codizione di fuggevolezza di tutte le cose, rappresenta anche il superamento della smania di Philip di fotografare il mondo per "fermare" l'immagine nella memoria. Non è più necessario, perchè ci si lascia andare.

La serie di foto che i due scattano insieme suggella un rapporto ora consolidato, finalmente catturando tramite la fotografia immagini di vita autentica e vissuta. 

 

Si intravede la soluzione di questa ricerca, ma il film finisce prima. 

L'ultima scena: il finestrino del treno, che intanto continua a scorrere. La cinepresa compie il movimento opposto alla scena iniziale, ora dal basso si alza verso l'alto, verso il cielo. Un senso di ciclicità, di completamento. Ha pefettamente senso che la vicenda finisca così, senza mostrarne l'effettiva conclusione. Quello che importa è questo viaggio inizialmente del tutto gratuito e infine scoperto come approdo. Mi piace pensare che, una volta riaccompagnata la bambina dai familiari, i due non si incontreranno mai più. 

Questo film riesce a trasmettere un senso di pace e di tranquillità ritrovata. In questa riflessione sull'autenticità dei rapporti umani e dell'amicizia, sul ritrovamento di un sentimento primigenio e vero, si può forse intravedere l'influenza di Ozu (di cui Wenders si è sempre dichiarato grande ammiratore). 

 

Il cinema tedesco nei decenni successivi al dopo-guerra è caratterizzato da questo senso della ricerca e libertà ritrovata, che è anche ricerca di un'identità perduta. Allo stesso tempo nel film (primo della "trilogia della strada") Wenders stesso compie un percorso di ricerca di una propria identità stilistica, intrecciando il racconto filmico con la sua vicenda personale di maturazione artistica. Si può forse azzardare che Nel corso del tempo (ultimo della trilogia) riuscirà a portare alla massima espressione questo senso di cinema puro e senza regole, mostrato nel suo farsi di scena in scena. Tuttavia non posso esimermi dal dare il voto massimo ad Alice, a causa della mia affezione nei confronti di questo film (decisamente tra i miei preferiti). 

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