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Un dollaro bucato

Regia di Calvin Jackson Padget (Giorgio Ferroni) vedi scheda film

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La recensione su Un dollaro bucato

di scapigliato
6 stelle

Si parla sempre bene di questo primo vero western di Ferrori, mettendo da parte quello comico del ’43 con Renato Rascel. Sicuramente all’epoca non dispiaceva vedere un film dove la mesta atmosfera della liturgia sacra del western classico americano era ancora viva e palpabile, ma ormai il germe di Sergio Leone si era instillato nei gusti generali e difficilmente altro cinema poteva ergersi al di sopra della nuova via. Sicuramente è un film solido, artigianale, classico non solo nel suo rifarsi all’universo western americano, ma anche per i toni e lo sguardo che completano la struttura drammatica della pellicola. Infatti non c’è scanzonatura alcuna, non c’è ancora l’ironia tutta italiana che avranno in futuro lo stesso Gemma, Terence Hill e altri. Nel film di Ferroni c’è tutta la sensibilità drammatica del cinema istituzionale. Qui il protagonista, un sudista tornato dalla guerra per essere preso a pesci in faccia da chiunque, va fino a Yellowstone per ricostruirsi una vita in attesa che lo raggiunga la sua amata July. Purtroppo in città sarà vittima dei loschi affari del possidente locale McCoy (Peter Cross), ed inizierà, prendendo le difese dei piccoli agricoltori, a vendicare la morte del fratello.
Se in alcuni punti il film diventa davvero visibile e interessante sia nel ritmo sia nello sguardo, in molti altri è incerto, con messe in scena facili, coreografie puerili, dialoghi ed interpretazioni telefonate. Si dice essere una delle migliori prove di Gemma, ma credo che come in “Una Pistola per Ringo” e soprattutto ne “Il Ritorno di Ringo”, l’attore si sia ripetuto solo ne “I Giorni dell’Ira” e in “California”. Anche se “Sella d’Argento” e “Arizona Colt” non sono affatto da dimenticare. É strano comunque come si imputi tanta importanza ad un fim che nel suo pressapochismo può giusto far sorridere per l’innocenza di alcuni impacci riconoscibilissimi (le già citate recitazione, coreografie, dialoghi, eccetera). Resta interessante la non indifferente parata di cattivi che lavorano per l’affarista McCoy, titolare della villainess del film, come Benito Stefanelli, Nello Pazzafini, Sal Borgese e Franco Fantasia. In più, il confronto finale tra Giuliano Gemma e Peter Cross, nonostante sia mutilato dall’intervento del popolo inferocito verso il meschino truffatore, ci regala un’originale momento outré atipico per il western classico. Così come atipiche sono le pseudo-torture e la pseudo-violenza rintracciabili in qualche scena, ma tutto sommato lontane anni luce dall’affondo violento e sadico di molti spaghetti-western prossimi venturi. La scena notturna in cui i due rivali s’incontrano per l’ultima volta ha la capacità di riportare il neonato genere all’italiana sui piani dell’innovazione e del discostamento dal modello classico americano. Peccato che a parte un buon Giuliano Gemma, forse ancora un po’ troppo acrobata più che attore solido come lo sarà in futuro, e a parte le caratterizzazioni dei brutti ceffi di cui prima, il cattivo di turno non sa di nulla: insipido. E Alfred Hitchocock insegna: “...più riuscito è il cattivo, più riuscito è il film”. Forse anche per questo, il primo western vero e proprio di Ferroni non può essere un capolavoro. Ma imputerei allo scarso sguardo mitico del regista, anche se solido e funzionale, il demerito principale del film.

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