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Il cacciatore

Regia di Michael Cimino vedi scheda film

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La recensione su Il cacciatore

di Alvy
10 stelle

 

È uno dei più grandi capolavori che la storia dell'arte (non solo quella del cinema) possa vantare ed è stato ormai analizzato in ogni modo possibile.

 

Vorrei quindi concentrarmi su un elemento che sembra assente nel film - la speranza - ma che emerge prepotentemente da un dettaglio che non ricordavo dalle precedenti visioni (vedere i film al cinema è veramente tutta un'altra cosa): il freeze frame finale.

 

The Deer Hunter termina con i reduci del Vietnam - "reduci" in ogni senso possibile: letterale, metaforico, allegorico, umano - che intonano God Bless America.

 

La cosa scandalizzò buona parte dei critici professionisti del 1978 che, alla luce di quella scelta, reputarono il film reazionario, di destra nell'accezione militarista del termine.

 

E forse avrebbero avuto ragione se quel genio di Michael Cimino non avesse optato per il freeze frame.

 

Il fermo immagine ha il potere di porre una sequenza al di fuori del tempo della storia raccontata e al di fuori del tempo impiegato per raccontare quella storia specifica. Il fermo immagine colloca la pregnanza iconologica di una sequenza su un piano atemporale, universale, astorico. Quel fermo immagine è un inno che Cimino tutto sommato si sente di intonare alla speranza, al non avere paura di ricominciare, di andare avanti e oltre l'orrore che la vita ci riserva.

 

Mi permetto di dire "ci" perché ognuno di noi si trova a vivere, forse suo malgrado, un proprio Vietnam personale. Il successo straordinario dei tanti film su quella pagina tristissima della storia americana è insito proprio nel valore universale di quella insensata ed autolesionistica guerra che ha spezzato una generazione e segnato negativamente un'epoca. Ognuno di noi, anche a decenni di distanza da eventi incomunicabili da chi li ha vissuti in prima persona ed incomprensibili per chi li ascolta, sente vicino Mike Vronsky o Linda perché ognuno di noi, almeno una volta nella vita, ha dovuto aggrapparsi alla speranza per andare avanti. Anche quando tutto sembrava essersi dissolto, anche quando tutto sembrava essere destinato a finire tra i grigi deprimenti di una provincia operaia della Pennsylvania come tante altre al mondo (che fotografia eccelsa di Vilmos Zsigmond) senza gli amici di una vita e senza certezze sulla strada da intraprendere. Quella piccola comunità di russi immigrati ormai fieramente americani e che per l'America hanno dato tutto sembra essere la prosecuzione ideale del gruppo sulla diligenza di Ombre rosse (1939) di John Ford. Ford raccontava in chiave epica la nascita di una nazione tra estasi della frontiera e contraddizioni relazionali, razziali e sociali, Cimino ne mette in evidenza l'integrazione nella e della cultura americana, i riti sinuosi (il matrimonio, il biliardo, il canto, i balli, l'alcol, Can't take my eyes off you, l'amicizia, l'amore), la caduta nell'Orrore più spaventoso e la morte.

 

Ma la cultura americana - che è per estensione quella occidentale - è fatta anche di speranza, di vitalità, la stessa vitalità che domina i primi 65 minuti del film e che nemmeno il Vietnam, nemmeno le peggiori torture, nemmeno le peggiori roulette russe, nemmeno la morte stessa possono domare.

 

L'America vera è quel gruppo di immigrati russi ormai integrati che, nonostante tutto, intonano un inno di speranza e di vita.

 

The Deer Hunter non fa sconti allo spettatore in termini di crudezza ed implacabilità ma non si tira indietro nemmeno dal lasciare un messaggio di speranza. Un messaggio di speranza dedicato a tutti quelli che hanno affrontato e affrontano ogni giorno il proprio Vietnam sperando di venirne fuori e voltare pagina. D’altronde, anche la vita stessa è un "one shot": rispettiamola, diamole valore anche quando ci inabissa in vortici infernali.  

 

Grazie, Michael Cimino, per quel freeze frame finale 

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