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Sfida a White Buffalo

Regia di J. Lee Thompson vedi scheda film

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La recensione su Sfida a White Buffalo

di scapigliato
8 stelle

L’idea di usare un genere “alto” come il western per riproporre il romanzo “alto” di Melville è molto suggestiva e con non pochi spunti interessanti. Dalla teoria alla pratica il risultato finale può cambiare. Il film di J. Lee Thompson non è considerato un film eccelso, sicuramente al di sotto delle aspettative letterarie. Il fatto però che non approfondisca molte questioni, soprattutto quella del conflitto uomo bianco/uomo rosso, e non spieghi compiutamente la tensione ossessiva che spinge i personaggi ad un’avventura incosciente, credo sia invece un’arma importante per la riuscita del film stesso. Raccontando di un uomo che, ossessionato da un mostro che lo tormenta di notte, si butta nella natura più incontaminata ed ostile, ritornando egli stesso “selvaggio”, pur di affrontare faccia a faccia, fisicamente, quindi su un piano reale e non più onirico quella “minaccia mostruosa”, è l’iter a cui un po’ tutte le storie mitiche e popolari fanno riferimento ad una loro decodificazione ai minimi termini. Se poi, l’uomo in questione si chiama Wild Bill Hickock e il mostro minaccioso è un Bisonte Bianco di fama mitologica, l’iter narrativo prende le forme del western, con tutto ciò che il genere per antonomasia si porta dietro. Ma non solo: in forma narrativa questo iter ha le sue radici nel racconto mitico (gli eroi), ma anche popolare (le fiabe e i loro personaggi semplici e poveri), ma è anche e soprattutto la rappresentazione, appunto in termini narrativi, di quella che è la più grande angoscia dell’uomo. Come essere vivente e pensante, dotato di tensioni interne, sogni, aspettative e sentimenti che trascendono la pragmaticità della realtà osservabile e vivibile, l’uomo ha da sempre cercato di portare fuori da sé questo suo “racconto” interiore, questo suo avventurarsi verso l’inspiegabile attraverso questo iter.
Il film di Thompson quindi punta in alto, non per l’iter che racconta, visto che è un po’ la base di ogni narrazione, ma perché lo gioca con le carte di un genere tra i più codificati, e prendendo spunto anche dal “Moby Dick” di Herman Melville. Il risultato finale è criptico. Da un lato la resa visiva è straordinaria, dall’altro la dialettica sui contenuti e le opposizioni in gioco rimane fredda e distaccata allo spettatore. “The Withe Buffalo” è comunque sorprendente. La regia punta tutto sulla resa impressionista e non realista della messa in scena. Il granitico Charles Bronson non si trova buttato in una “realtà”, bensì in una sua distorsione, forse ereditata dai suoi incubi notturni. Non si trova in una realtà che appare così ai suoi occhi come ai nostri, bensì in una sua “impressione” di realtà che diventa poi anche la nostra. Locali fumosi, chiaro/scuri “letterari”, personaggi e dialoghi da fumetto, messa in scena teatrale e suggestiva. “The White Buffalo” è la concrezione di un racconto nero, direi anche gotico: un’horror dell’anima, tant’è che può essere anche annoverato non solo tra i western, ma anche tra i beast-horror, di cui “Razorback” sembra l’erede migliore. Ma ipotizzo anche per “The White Buffalo” un’intenzione espressionista e anche ben riuscita: la realtà infatti viene deformata dai tagli di luce e dalle ombre, dalla stilizzazione della messa in scena che sembra seguire i consigli di uno storyboard preso direttamente da un fumetto, e dal fumetto eredita anche l’impostazione scenica e le inquadrature che sembrano tridimensionalizzare la natura bidimensionale del fumetto. La macchina da presa si muove all’interno di questa bidimensione con belle carrellate e zoom da explotation, inserendoci all’interno del racconto, all’interno dei saloon fumosi, delle caverne oscure, all’interno degli spazi aperti e accecanti. Un immaginario nero dunque, con tanto di lupi che ululano nelle gole dei monti, che impregna il film di suggestioni ataviche e anche plastiche. Un senso plastico ravvisabile anche nel mostruoso Bisonte Bianco creato da Carlo Rambaldi, il papà di E.T. e di King Kong. Fanno forse paura i lupi ricreati in digitale e che scorrazzano per Manhattan in “The Day After Tomorrow”? Fa forse impressione il gigantesco coccodrillo digitale di “Lake Placid”? No signori. Assolutamente no. Rendono molto di più i veri cani di “The Breed” e i veri leoni di “Prey”, ma tra il vero animale e la sua imitazione in digitale, ai fini di una “rappresentazione” dell’atavico archetipo minaccioso e mostruoso in senso letterario e psicologico, è molto più efficace la sua “ricreazione” plastica dove il trucco magari si vede, ma la cui immagine entra prepotente nel nostro immaginario. Tra i risultati migliori vanno ricordati il cinghiale assassino di “Razorback”, i coccodrilli giganteschi di “Killer Crocodile” e “Alligator”, e anche il lupo mannaro di John Landis.
Anche i personaggi, nella loro stilizzazione, aiutano in questa direzione fumettistica: dai protagonisti alle caratterizzazioni, tutti compiono perfettamente il suggestivo ruolo di “incarnazione immaginifica” di caratteri e tipi da fumetto, da dime-novels. Non dimentichiamoci che nell’800, epoca del western, la narrazione spettacolare e codificata nei termini della leggenda aveva l’impatto sui propri lettori che noi oggi diamo al fumetto. Quindi è apprezzabile il lavoro che gli sceneggiatori e il regista hanno fatto per ricreare una certa atmosfera. Atmosfera che ci porta direttamente all’interno di un diorama di cartapesta con indiani, pistoleri, trappers, montagne arcigne, bestie feroci, saloon e diligenze.
Resta però poco approfondita, e con qualche paura di cattiva interpretazione, la parabola civile che lega, prima nello scontro, poi nell’incontro e infine nel confronto, i due protagonisti. Uno è l’uomo bianco, Charles Bronson, niente popo di meno che Wild Bill Hickock. L’altro è l’uomo rosso, Will Sampson, ovvero Cavallo Pazzo. Più e più volte si parla del conflitto tra bianchi e pellerossa, ma non si arriva mai ad un verdetto. O meglio, da un film western del ’77 ci aspetteremmo una presa di posizione netta nei confronti degli indiani. Invece tutto farebbe pensare che semplicemente “così è stato, e non ci possiamo fare nulla”. Il popolo indiano è stato vinto, adesso è il momento dell’uomo bianco. E poi sul finale, nonostante si siano avvicinati come esseri umani, Wild Bill e Cavallo Pazzo si promettono di non incrociare mai più i loro cammini, altrimenti dovranno “risolvere il grande mistero”, ovvero sfidarsi a morte. E ciò che fa specie è che questa posizione radicale arriva dall’indiano, che potrebbe farci apparire l’intera vicenda come una propaganda sulla buona fede degli americani e sulla riottosità dei nativi. Credo piuttosto, o meglio, preferisco credere che l’assenza di un approfondimento faccia parte della stilizzazione dei caratteri. Dopotutto stiamo parlando di Cavallo Pazzo, un capo guerriero, e di Wild Bill, un ammazzacristiani. Credo che J. Lee Thompson sia stato coraggioso a non dipingere a sua piacimento delle grandi icone storiche, più leggendarie che reali, ma tenendole solo su un piano fumettistico. Anche la morte del Bisonte Bianco, nella grammatica del linguaggio con cui ci è narrata, non sembra risolvere nulla all’interno della diegesi. Credo piuttosto che, una volta morto, il White Buffalo abbia lasciato al vecchiaccio scorbutico interpretato da Jack Warden, la sua natura minacciosa. Non pochi sono i riferimenti sparsi lungo l’arco della pellicola sui capelli “bianchi” del vecchio, sul fatto che sia un “bianco” fortemente convinto della propria superiorità sui rossi, e così via. Nulla toglie che è possibile leggere la sfida al Bisonte Bianco come una sfida all’uomo bianco, incarnato dal vecchio trapper razzista. Il conflitto tra di lui e Charles Bronson non si risolve in un duello, ma ci viene presentato visivamente con più pathos e più tensione rispetto la precedente scena della morte del Buffalo. Questo, credo, ad individuare nel loro improvviso scontro il vero centro dell’azione finale.
Sicuramente Charles Bronson è uno di quegli attori che non si dimenticano. La sua maschera di marmo non ci ha mai concesso troppo spesso di vederlo commuoversi. Eppure, proprio negli improvvisi cambi dello sguardo, l’attore meticcio per antonomasia, risulta sorprendentemente in grado di comunicare l’orrore e la paura. Bellissima infatti la sua sfida dichiarata al White Buffalo tramite una testa di bisonte impagliata e falsamente bianca. Una piccola battuta che sa però di scespiriano per impostazione e per il senso ultimo che si dà quindi al personaggio in visione della sua lunga avventura sui monti inospitali. Ma il film è ricco anche di grandi caratteristi, due dei quali, Jack Warden e Will Sampson, sono co-protagonisti della vicenda. Passano in rassegna infatti nomi come John Carradine, Slim Pickens e Kim Novack.

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