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The Hateful Eight

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

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Dom Cobb

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su The Hateful Eight

di Dom Cobb
8 stelle

Oggetto strano questo "The Hateful Eight", ultima - in ordine di tempo - incursione nel cinema di un sincero appassionato di Cinema come Quentin Tarantino. Una premessa è d'obbligo: proprio imparando a conoscere Tarantino bisogna essere preparati ad essere stupiti ogni volta che un suo film vede la luce. O, comunque, bisogna mettere in conto che le proprie prospettive su ciò che si vedrà in sala potranno essere piacevolmente sovvertite. In questo caso, per esempio, una volta annunciato il progetto, pareva che il regista di Knoxville riprendesse in mano il genere western - a lui molto caro - girandone un altro di seguito al precedente "Django Unchained"; niente di più sbagliato: "The Hateful Eight" NON è un western, o, comunque, non è un western nel senso stretto del termine. Mi è parso che stavolta, più ancora che in passato, Tarantino abbia voluto saltellare e fondere tra di loro diversi generi cinemotografici, creando un'amalgama curiosa ma, allo stesso tempo, gustosa. Insomma, l'input da cui far partire la vicenda nasce nel western, con il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) che, sulla sua strada incrocia "Il collega" Marquis Warren (Samuel L. Jackson), ex ufficiale dell'esercito dell'Unione; Russell, a bordo della diligenza, scorta la prigioniera Daisy (Jennifer Jason Leigh) verso la cittadina di Red Rock, dove verrà impiccata. Sulla loro strada, i due uomini di legge caricheranno a bordo anche Chris Mannix (Walton Goggins), presunto neo-sceriffo proprio di Red Rock. Purtroppo, "l'incattivirsi" della tormenta di neve costringerà il gruppo a cercare riparo presso l'emporio di Minnie, già precedentemente occupato da altri "ospiti". Questo "Hateful Eight" è stato spesso presentato come un film girato in soli interni: questo è vero solo in parte, poichè la prima ora e mezza (circa) di film è ambientata proprio durante il viaggio in diligenza e già in questo ambiente estremamente ristretto si respira il clima che pervaderà l'intero film. I personaggi non si fidano l'uno dell'altro fin da subito, mossi da odio personale o "ideologico" verso gli altri compagni di viaggio. Anche in questo caso, come per il precedente "Django", Tarantino sceglie di ambientare il film nel passato per raccontare i controsensi attuali del proprio paese: nel film siamo negli anni immediatamente successivi al termine della Guerra di Secessione ed il paese è ancora profondamente spaccato e dilaniato - doppiamente - tra nordisti e sudisti e altrettanto duramente tra bianchi e neri. Una volta giunti all’emporio, i nostri “non-eroi” trovano il generale Smithers (Bruce Dern), anziano ufficiale dell’esercito confederato in cerca del figlio scomparso, l’azzimato Osvaldo Mobray (Tim Roth), boia diretto proprio a Red Rock per svolgere il proprio lavoro, il messicano Bob (Demian Bichir) e il mandriano Joe Gage (Michael Madsen), che torna a casa dalla madre; del resto, come dice proprio il messicano Bob, “Tutti hanno una madre”. Kurt Russell – uomo brutale e diretto – interroga senza troppi preamboli tutti i presenti, disarmandoli se necessario. Subito, perciò, l’aria che si respira all’interno dell’emporio si fa subito pesante e, per il quieto vivere, lo stesso emporio viene grottescamente usato come una cartina geografica, dove il bar rappresenta il nord (e i nordisti) ed il caminetto il sud, “terra” dei confederati. Di questo gruppo di “Bastardi senza gloria”, sicuramente il personaggio di Samuel Jackson è quello che porta con sé il maggior numero di sgradevoli contraddizioni: il suo Maggiore Warren si presenta come un soldato di razza che si è fatto onore in guerra, ma la verità (fatta di chiacchere e racconti) lo dipinge come un farabutto che, per fuggire da un campo di prigionia sudista, non esita a dar fuoco a tutto e, di conseguenza, a bruciare vivi non solo i soldati sudisti, ma anche un folto gruppo di prigionieri nordisti. Lui ed il personaggio di Bruce Dern si sono già incontrati/scontrati durante la battaglia di Baton Rouge ed il viscido Jackson, per avere un pretesto per poter uccidere il vecchio generale, racconta un’orrida storia su come egli stesso abbia (apparentemente) ucciso e, prima ancora, umiliato, il figlio del generale. In questo caso Tarantino costruisce sapientemente la scena dove alla sgradevolezza del racconto di Jackson fa da contrappunto il messicano Bob che strimpella al pianoforte (incazzandosi quando stecca qualche nota) “Astro Del Ciel”. Insomma, seguendo il suo racconto, Warren/Jackson ha negato al suo prigioniero sudista anche la dignità nel momento della morte e della sconfitta. Ciò che invece reclama a gran voce il personaggio di Goggins, soprattutto quando Jackson e Russell apostrofano suo padre come un bandito: “Mio padre si battè per la dignità nella sconfitta e contro la resa incondizionata”. Il personaggio di Goggins è quello che, tra più di tutti, subisce la maggiore evoluzione nel corso della storia: appena entra in scena appare come un chiacchierone debosciato, ma, man mano che la vicenda procede, mostra dei lati forse più nobili (usiamo questo termine): il sincero rispetto verso il Generale Smithers, il non voler scendere a patti, verso la fine del film, con il personaggio di Jennifer Jason Leigh, perché “i bastardi più bastardi meritano di morire”. In una vicenda ammantata di mezze verità (ben poche) e di molte bugie, la massima ipocrisia è data dalla lettera scritta dal Presidente Lincoln (addirittura in tono amichevole) che Jackson porta con sé alla stregua di un trofeo da mostrare con orgoglio (ottenendo, difatti, la deferenza di Kurt Russell quando gliela fa leggere): Jackson, che addirittura fa la morale ai sudisti su come abbiano trattato i neri, usa la lettera di Lincoln (che si scoprirà platealmente falsa) come scudo con il quale ammantarsi di potere, di presunte conoscenze “altolocate” e di conseguenza come “arma” per ottenere rispetto. “Con questa lettera disarmo i bianchi” bofonchia Jackson al deluso Russell. Anche il monologo di Tim Roth sul concetto di giustizia porta alla luce un discorso ricco di contraddizioni: Roth, in qualità di boia, sarebbe la figura che, per legge, si occuperebbe dell’impiccagione di J. J. Leigh; perciò, che differenza ci sarebbe se a giustiziarla fossero i parenti delle vittime anziché “chi di dovere”? Dove si differenziano la giustizia dalla giustizia di frontiera? Nelle parole di Roth, la giustizia sarebbe giusta quando istituzionalizzata, quando cioè viene sbrigata come una pratica burocratica da evadere. “Per far giustizia ci vuole distacco, altrimenti non è giustizia” chiosa Roth in conclusione del proprio discorso. Il film, tra l’altro è stato – sbrigativamente – etichettato come maschilista e misogino per il trattamento “poco di cortesia” che viene riservato al personaggio di J.J. Leigh, Daisy: in realtà, come è già stato fatto notare da più parti, Daisy non viene “suonata come un tamburo” per tutto il film in quanto donna, non si tratta di una qualche forma di rivalsa maschile; piuttosto viene pestata in quanto carogna anche lei come tutti gli altri. Se in apertura di film appare quasi indifesa a bordo della diligenza, incatenata al robusto Kurt Russell e con un occhio pesto, ben presto mostra la sua vera natura di megera (sorella del feroce “damerino” Channing Tatum, capo di una banda di pistoleri) che aspetta sardonica che i “maschi” del gruppo si ammazzino tra di loro e che si diverte, con la sue voce stridula, a provocare il suo carceriere (“Tu su questa montagna morirai” canta a Kurt Russell mentre strimpella una chitarra); Tarantino gioca anche parecchio con l’aspetto fisico del personaggio: alla fine, con il volto tumefatto ed imbrattato di sangue, i denti rotti, la voce stridula ed un sorriso cattivo, Daisy assume quasi le fattezze di un’autentica strega. 

Tarantino, in ossequio alla sua enciclopedica conoscenza, ha optato per girare il film su pellicola, che fornisce una diversa qualità al girato rispetto al digitale e, soprattutto, in formato panoramico 70mm – conosciuto come Cinerama – molto in uso nei kolossal degli anni 50 e 60 e caduto in disuso dai tempi del film “Khartoum” del 1966. In tempi recenti Terrence Malick per “The New World” e P.T. Anderson per “The Master” hanno girato porzioni di film in questo formato, ma non in maniera così estesa come ha fatto Tarantino in questo caso. Visto sullo schermo adatto al formato – nel caso, la sala Energia di Melzo – il 70mm mostra tutte le sue potenzialità, con scene all’aperto di ampio respiro e grande spettacolarità; Tarantino, all’interno anche di una singola inquadratura, riesce ad inserire molteplici elementi: i personaggi che parlano in primo piano ed il paesaggio sullo sfondo, oppure la bellissima inquadratura iniziale, che parte da un dettaglio di un crocifisso coperto di neve fino a giungere alla diligenza che vi passa accanto. Di contro, tutta la parte girata in interni mi ha dato un senso di claustrofobia e di tensione, come se qualcosa di terribile ed inesorabile fosse pronto ad accadere in qualsiasi momento. In molti punti “The Hateful Eight” mi ha ricordato il film “La Cosa” di Carpenter, sia per via della situazione che si viene a creare (un gruppo di persone isolate da una tormenta di neve), sia per via del clima di paranoia. “Qualcuno qui non è chi dice di essere” chiosa John Ruth/Kurt Russell e si tratta quasi delle medesime parole che il grande Russell recita anche nel film di Carpenter. Ho riconosciuto anche la mano del Maestro Morricone alle musiche che, però, più che delle sonorità western, mi hanno riportato alla mente sia “La Cosa”, sia (addirittura) le musiche del film “Gli Intoccabili” di De Palma.

Anche il finale appare grottesco e sardonico, con Jackson e Goggins che, sanguinanti e morenti, rileggono la falsa lettera di Lincoln, piena di alti e nobili ideali, mentre fa bella mostra il corpo di J.J. Leigh, appeso per il collo con un cappio; impiccata così come le sarebbe accaduto una volta giudicata dalla legge a Red Rock: perciò, giustizia è fatta?

locandina

The Hateful Eight (2015): locandina

Locandina italiana.

 

 

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