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The Reaper

Regia di Zvonimir Juric vedi scheda film

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La recensione su The Reaper

di lussemburgo
6 stelle

In una notte di mezza stagione, una donna termina la benzina e si avventura in una strada tra i campi in cerca d’aiuto. Un trattore si avvicina e il conducente, Ivo, un mietitore di mezza età, si offre di aiutarla. Tra l’anodino e l’inquietante, The Reaper, col suo titolo già largamente evocativo, inizia con l’apparente banalità del quotidiano e accompagna i suoi personaggi nelle prime tappe di un salvataggio che si tinge di dubbi e di timori. Perché la narrazione procede con una progressione a spola, di personaggio in personaggio, per onde concentriche da un evento fortuito che si increspano poi inopinatamente, rimbalzando sulla memoria non sopita di un passato prossimo, di una guerra evocata più volte nei dialoghi, che ha sconvolto la vecchia Jugoslavia e creato infiniti orrori non lasciando nessuno indifferente.

The Reaper, seppur dalla fotografia nitida, è un film buio e ombroso, che non concede facilmente le proprie chiavi di lettura o precisi dettagli sui personaggi. Questi si presentano a poco a poco allo spettatore, accompagnati da dialoghi dilatati dall’imbarazzo o da scambi altre volte concitati, che però molto lasciano comunicare al silenzio, al sottinteso e all’alluso, all’assenza di un accompagnamento musicale. Con inquadrature orizzontali ad altezza d’uomo, in un formato panoramico dilatato dalla profondità di campo come in un western agricolo, il regista pedina i suoi protagonisti con una certa freddezza, li ritrae in un’unità di luogo e di tempo con un montaggio alternato in una serie di scontri verbali, di duelli più o meno fisici. Juric cerca una visione d’insieme nel raccontare vicende in apparenza separate e incongrue, comunque infine convergenti, da cui emerge la brutalità di una comune solitudine che nemmeno la costruzione di una famiglia sembra redimere. Il futuro rimane solo un’ipotesi, o addirittura una minaccia nella sua imprevedibilità. In quel paesino croato, isolato nella notte, i neonati sono in pericolo o un peso, l’appartenenza al gruppo, con rapporti quasi gerarchici di sudditanza e di preminenza, prevale sulla parentela, l’ubbidienza sugli affetti, la logica dello scontro sulla conciliazione.

Il film non sembra avanzare nel racconto, bensì tornare sempre sui suoi passi, ampliando il ritratto con altri personaggi, approfondendo il senso di abbandono sociale, di indigenza diffusa e di atemporalità aggiungendo dettagli. Tra giovialità forzosa e minacce latenti, affetti stremati e inquietudine esistenziale, è una collettività in stallo che viene mostrata, ferma a relazioni consolidate e forse errate, retaggio di un altro tempo di cui tutti sembrano reduci, ostaggi di un ambiente quasi carcerario nei suoi rapporti di forza stabiliti, per la latenza della minaccia, una prigione di affetti che anche gli interni mostrati, spogli e grami, sembra consolidare. Confini mentali e geografici circoscrivono l’azione e la vita dei personaggi. Il film si dispiega allora come un senso di colpa collettivo, nella consapevolezza di un altrui o di un proprio rimorso che soffoca ogni rapporto nella tensione e nel disagio. E se si può parlare di suspense, per l’inquietudine ed il sospetto diffusi tra tutti i protagonisti, per la sensazione di tragedia passata e di dramma incombente, si tratta di una tensione in senso anti-hitchcockiano, priva di dettagli di informazione ma sovrastante, non semplicemente funzionale alla narrazione e asfissiante. È una cortina di mistero che aleggia e incombe, come la notte che sembra non terminare mai, sono le macerie di un passato inconfessabile in cui tutti vivono, con un tempo quasi fermo all’inizio della guerra nei Balcani come quella stanza vicino a quella in cui abita Ivo, con le tazze del the ancora ferme sul tavolo sotto la polvere.

E nella ciclicità degli eventi, che porta il finale a tornare da chi aveva iniziato il racconto, si imprime alla narrazione un senso progressivo di soffocamento, di tormento senza tregua né via di fuga, di ferita sempre aperta e sanguinante. Lo stesso Ivo, protagonista suo malgrado del racconto, deve vivere con il peso della violenza perpetrata vent’anni prima, con la colpa e la memoria della colpevolezza che vanifica ogni aspirazione, per quanto patetica, di normalità. E che rende la violenza, ancora, l’unico esito, la sola manifestazione e forma di comunicazione immaginabile.

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