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Mr. America

Regia di Leonardo Ferrari Carissimi vedi scheda film

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La recensione su Mr. America

di OGM
6 stelle

Regia e sceneggiatura ci trattano senza riguardo. Eppure il film ci chiede disperatamente di essere visto fino in fondo. Sarà per il modo tenace ed appassionato in cui dimostra di voler restare abbracciato a quell’idea, nefasta, proibita, pericolosa,  che nemmeno riesce a pronunciare chiaramente. Forse il suo è solo imbarazzo, per quella convinzione che esita a manifestarsi in un’aperta condanna. C’è un’arte che uccide. Quando è troppo libera può davvero fare tanto male, fino ad indurre nella perdizione, fino a causare una terribile morte. A questa mostruosità l’autore vuole dare un nome ed un cognome:  quello di Andy Warhol, il celebrato genio della pop art. è a lui che si ispira Mr. America, uno spietato serial killer con la parrucca biondo platino, che fa strage di pittori e, dopo ogni delitto, si gusta un panino del fast food. L’accostamento è così tremendamente ingenuo che fa rabbrividire; rievoca la malvagità senza senso del lupo cattivo delle fiabe, che serve solo ad introdurre una morale fondata sul terrore. Magari è proprio questa la giusta intonazione da dare al ritratto di una maledizione che si presenta con le tinte di un puerilismo kitsch, che usa i contrasti cromatici per semplificare e dissacrare al tempo stesso. Lo spirito del Chelsea Hotel è fantasticare stancamente intorno alla banalità – facendo di una latta di minestra il soggetto di un dipinto – e, viceversa, ridurre il mito ad un dozzinale prodotto in serie – come l’icona di una diva trasformata in una sequenza di  fotocopie fluorescenti. Il film di Leonardo Ferrari Carissimi cerca di fare propria la tecnica espressiva della stampigliatura d’autore, che comunica per mezzo di impronte di vernice, immagini sfocate, disegni stilizzati, attraverso un’improvvisazione priva di profondità,  dalla prospettiva schiacciata e senza ombreggiature. Il modello di riferimento è il fumetto, che racconta per scatti successivi, alternando dettagli e primi piani, una banana e il volto di Mao Tse-tung. Non importa quanto la scelta degli oggetti appaia causale e quanto l’effetto complessivo risulti sgradevole: lo scopo è disaggregare la realtà a furia di flash battenti, selvaggi, che sovvertono l’ordine delle cose e stordiscono l’osservatore. Quell’abbaglio toglie, alla superficie del mondo, la naturale illusione di morbidezza e gradualità, per sostituirla con l’impressione aggressiva di una parata di macchie di colore, sgraziate e surreali. La stonatura, in questo caso, è una forma di irriverenza, che esce dai margini della moderazione per pasticciare allegramente con i simboli autentici o inventati. Si può provare a riprodurre l’esperimento sullo schermo, convertendo le sbavature pittoriche nelle ombre soffuse di un noir: questo film persevera nel tentativo di bombardarci con allusioni che sfacciatamente si svelano, ed altre che malignamente si rendono incomprensibili. Questo gioco, purtroppo, fa fuori il mistero, ed è questo sgarbo ad allontanarci dal film. A meno di non volerlo prendere per quello che è: ribelle ma trattenuto, evasivo ma non raffinato, geloso della sua anima nera, ancora troppo immatura per poter parlare il comune linguaggio del mondo. 

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