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Crying Fist - Pugni di rabbia

Regia di Seung-wan Ryoo vedi scheda film

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La recensione su Crying Fist - Pugni di rabbia

di joseba
stelle

Ex medaglia d'argento ai giochi asiatici di Pechino, Tae-shik (Choi Min-sik) ha enormi problemi economici e per sbarcare il lunario si inventa una professione assai bizzarra: il punching bag umano sul quale sfogare le frustrazioni quotidiane. Giovane delinquente che vive rubacchiando e taglieggiando studenti, Sang-hwan (Ryoo Seung-beom) tenta un colpo più grosso ma viene immediatamente colto in flagrante e spedito in carcere. Le vite dei due uomini sembrano non avere nulla in comune tranne una generica inclinazione al fallimento, ma le loro strade sono destinate a incontrarsi sul ring: entrambi partecipano al campionato nazionale dei pesi superleggeri e riescono ad arrivare in finale. Quarto lungometraggio di Ryoo Seung-wan (divenuto celebre col suo film d'esordio, quel "Die Bad" che nel 2000 ha improvvisamente fatto scoprire le potenzialità commerciali del cinema indipendente), "Crying Fist" è un boxe-movie che intende coniugare dinamismo sportivo e introspezione psicologica. Se all'irruenza ci pensa lo stile ipercinetico del regista (camera a spalla, otturatore aperto e tanta confusione), la caratterizzazione dei personaggi spetta invece a due attori appartenenti a generazioni diverse ma di talento non dissimile: Choi Min-sik ("Old Boy") e Ryoo Seung-beom ("Conduct Zero"), quest'ultimo fratello minore del regista. I due attori offrono interpretazioni opposte: caciarona e estroversa quella di Choi, trattenuta e introversa quella di Ryoo. Per quanto entrambi convincenti e perfettamente in parte, i ruoli loro assegnati soffrono di un'eccessiva specularità: le sfortune dell'uno si riflettono nelle disgrazie dell'altro, così come le paure e i desideri di riscatto. Del resto l'intero film, tutto proteso a schivare il cliché del pugile sfigato che sfida il campione, è incardinato sul parallelismo tra i due personaggi, figure emblematicamente antieroiche e analogamente inguaiate. Ma se lo script, testardamente piantato sul dualismo, non brilla per libertà di tratto, la regia è altrettanto rigida: il montaggio alternato (talvolta degenerante in split-screen) monopolizza il dettato visivo, rendendo assai artificiosa e schematica la progressione drammatica. Il risultato è che non ci si appassiona mai a ciò che sta succedendo e quando, nel finale, il pathos dovrebbe toccare e addirittura commuovere, la situazione assume toni grotteschi e caricaturali. Trascurabile anche il sottotesto di critica sociale (leggi "competizione feroce", "rispettabilità", "umiliazione" e via dicendo). Ha già detto tutto, e infinitamente meglio, Kim Jee-woon nello strepitoso "The Foul King".

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