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A Girl at My Door

Regia di July Jung vedi scheda film

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La recensione su A Girl at My Door

di Peppe Comune
8 stelle

Jung-Nam (BaeDoo-na) è il capo della stazione di polizia di un piccolo paese della provincia di Seoul. È stata trasferita dalla capitale dopo che era stata scoperta la sua relazione con un'altra donna. Nel corso delle ordinarie perlustrazioni della zona, la poliziotta scopre che dietro l'apparente tranquillità del luogo si nasconde tanta gratuita violenza. Ma la sua attenzione si appunta particolarmente sulla sorte di Do-Hee (Kim Sae-ron), una ragazza continuamente maltrattata dall’anziana nonna ((Jin-gu Kim) e dal padre (Song Sae-byeok), un uomo violento che oltre ad essere dedito all’alcol e a capo di diversi traffici illeciti nella zona del porto. Jung-Nam cerca di soccorrere la ragazza per sottrarla dalla violenza del padre padrone. Ma le richieste d’aiuto di Do-Hee ed il coinvolgimento emotivo della poliziotta rischiano di mettere sotto una cattiva luce l'esistenza di entrambe.

 

Kim Sae-Ron

A Girl at My Door (2014): Kim Sae-Ron

 

Così come accade nelle cinematografie dei paesi economicamente più sviluppati del pianeta, molto cinema coreano si preoccupa di raccontare quando accade ai margini del centro pulsante del paese, di mostrare i caratteri retrivi che ancora resistono in quelle zone di periferia abbastanza lontane dai bagliori modernisti di una capitale della new economy globalizzata come Seoul. 

Un caso emblematico è rappresentato da “A Girl at My door” di July Jung, un film che proprio dalla fuga coatta dalla capitale sudcoreana della protagonista trae spunto per delineare un quadro d'ambiente popolato da una profonda e pericolosa arretratezza culturale. Maltrattamento sui minori, pregiudizi a sfondo razziale, sfruttamento del lavoro nero, omofobia. Tutto questo accade nell'apparente tranquillità della vita di provincia, dove è impossibile non vedere ma dove, evidentemente, appare ancora più conveniente voltarsi dall’altra parte. Tutto questo fa la sostanza narrativa di un film che trova la sua più idonea delineazione registica nel penetrare i segni più o meno tangibili della violenza con delicata discrezione, come un fatto che esiste perché le frustrazioni che i più forti possono sfogare sui più deboli trovano sempre un tacito alleato nella omertosa sopportazione della prepotenza. 

Ciò che di interessante mette in scena “A Girl at My Door” è l’esistenza di quel limite sottile che esiste tra una vita popolata dal piacere delle piccole cose e la mancanza delle cose anche più semplici che possono rendere grigia una vita. Non conoscere quel limite potrebbe significare confondere il diritto dato ad ognuno a vivere una vita serena col fatto che quel diritto si configura come una gentile concessione esercitata da chi ha più potere. Questo corto circuito viene delineato molto bene dal regista sudcoreano, che in più situazioni filmiche dimostra un’accurata abilità nel far emergere un dato socioculturale spesso insito nella violenza praticata contro le fasce più deboli della società (omosessuali, minori o immigrati che siano) : la consolatoria preferenza a ghettizzare le vittime piuttosto che a combattere i carnefici. Prova ne è il ruolo di Jung-Nam come principale catalizzatrice dell’intero sviluppo narrativo. Bastano il suo arrivo e i suoi occhi vigili sul mondo circostante per portare in superficie sacche di ingiustizia che erano sempre esistite ma che se ne stavano impunemente sottotraccia.   

Ovviamente centrale è il rapporto che si instaura tra la donna e Do-Hee, un rapporto che nasce spontaneo ma che altrettanto spontaneamente fa emergere pericolose scosse telluriche. Jung-Nam scorge i segni della violenza sul corpo della ragazzina (come sul volto tumefatto di un immigrato indiano), segni brutti ed evidenti che non la fanno voltare dall'altra parte ma la spingono ad indagare sui perché. E si stranisce nello scoprire quanta complice omertà alberga dentro tanta ostentata tranquillità. Perché lei lo ha subito il pubblico dileggio e sa quanto pesi di più una violenza subita che rimane anche inascoltata. Per questo si lega alle sorti della ragazzina con istintivo trasporto emotivo, prima come donna che sa cosa si prova a doversi sentire in colpa senza aver fatto nulla di male, e poi come poliziotta abilitata a difendere ogni cittadino dalle prepotenze dei malfattori. 

Jung-Nam sa che può proteggere la ragazzina sotto la cappa del potere che esercita, ma sa anche che questo non potrebbe bastare dato che lei è anche una donna che non può vivere liberamente il suo amore omosessuale. Perché, in una società retriva come quella che la circonda, questo fatto rischia di avere un peso specifico molto maggiore rispetto al suo ruolo di capo della polizia locale. E quindi vestire di false supposizioni ogni buona intenzione e affogare in accuse infamanti il semplice fatto di avere accolto in casa propria una ragazzina ripetutamente brutalizzata dal padre alcolizzato e dalla nonna isterica. Perché, quando il moralismo bigotto permea nel profondo il tessuto sociale di un paese, in nome e per conto della tranquillità che si vuole conservare può succedere che si tenda a mettere fuori fuoco gli effettivi proprietari delle colpe (“Mi avevi detto che se non avessi fatto nulla di male non mi avrebbero picchiato. Stavo solo tentando di non essere picchiata”, dice molto emblematicamente Do-Hee). E allora, gli abbracci che Jung-Nam dona alla ragazza possono diventare delle sospette "derive" sessuali  e la cura delle sue ferite un peccaminoso adescamento del corpo. 

Per questo riguarda Do-Hee, le botte del padre padrone l'hanno fatta crescere troppo in fretta per non aver dovuto maturare anche qualche furba messinscena per non soccombere più in fretta. Ha un evidente deficit sentimentale, che cerca di colmare barattando la forzata solitudine con un acceso attivismo (“Ogni volta che vengo picchiata, se mi metto a ballare mi sento meglio e riesco a dormire”, dice ad un certo punto). La ricerca di quell'affetto che non ha mai ricevuto da nessuno gli fa essumere una maliziosità di atteggiamento che è la diretta conseguenza della necessità di ricevere attenzione e colmare distanze. 

In conclusione, “A Girl at My Door” tratta temi forti come l'omofobia, la violenza sui minori, il caporalato, la tipica ipocrisia di provincia. E lo fa senza darlo troppo a vedere, con la pacatezza tipica di chi intende riflettere sulle cause profonde piuttosto che spettacolarizzarne gli effetti. Il finale, dove tutto sembra mettersi a posto, è solo fintamente consolatorio. Ma credo che non potesse esserci soluzione migliore dato gli elementi narrativi messi in campo. Perché una complicità non può che diventare indissolubile quando delle richieste di aiuto trovano una porta che si apre senza chiedere nulla in cambio. Ottimo film. 

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