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Le mille e una notte - Arabian Nights

Regia di Miguel Gomes vedi scheda film

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La recensione su Le mille e una notte - Arabian Nights

di EightAndHalf
8 stelle

INTRODUZIONE – Sono riuscito a vedere Le mille e una notte di Miguel Gomes grazie al Sicilia Queer FilmFest, nell’unica proiezione prevista sotto Roma, nel nostro Paese, ovvero a Palermo. Opera monumentale e pluristratificata, è un film complesso e meraviglioso, che ho deciso di analizzare passo passo per rendere giustizia ai più svariati dettagli.

 

 

Universo di segni.

 

locandina

Le mille e una notte - Arabian Nights (2015): locandina

 

Miguel Gomes ci ha abituato fin dalle sue prime opere a non assicurare direzioni. Con A Cara Que Mereces aveva instillato il dubbio e il disorientamento nello spettatore; con Our Beloved Month of August era stato in grado di tirare una somma, seppur piccola e intimistica, da un materiale difforme e ramificato, annunciando la natura metatestuale del suo Cinema, subdolamente presente anche nel Cantico delle creature; con Tabu aveva tentato la strada del rigore quasi romantico, con un occhio a Murnau; e adesso con Arabian Nights sembra rigettare tutto nella mischia, accennando, come con Tabu, la possibilità di venire a capo di tutto. Dunque la sua filmografia si è contraddistinta per una maturazione che prevede, finalmente, nelle sue opere contemporanee, di produrre del nuovo, anziché limitarsi al più giovanile distruggere certezze o appigli semantici che dir si voglia. Un confronto costante delle materie formali/narrative dei suoi film è quello poi con il tema ludico del gioco, affrontato sotto tanti aspetti, prima sul versante tematico, poi come possibilità stessa di racconto: un emblematico caso di tema che finisce per innervare e corrompere la regia, lo stile, il modo di vedere le cose (molte, nonostante il rigore, le sequenze “giocose” di Tabu).

 

scena

A Cara que Mereces (2004): scena

 

Sonia Bandeira, Fabio Oliveira

Aquele Querido Mês de Agosto (2008): Sonia Bandeira, Fabio Oliveira

 

 

In Arabian Nights la natura ludica della regia gomesiana si scontra con il presente. Il film è attraversato da una tensione che va lentamente affievolendosi, in tutta la trilogia, specialmente in Inquieto, ed è come se Gomes si chiedesse se la frammentazione della trama, il riflesso metacinematografico, la commistione dei generi, l’ostentazione di originalità e la vicinanza a tematiche sociali rappresentino l’unico modo sincero e onesto di raccontare. Come nelle più classiche opere della letteratura o della narrativa, Gomes fa la propria esplicita dichiarazione d’intenti, immergendo prima di tutto la materia estetica del suo film (ancora prima dei suoi contenuti) in una crisi quasi disperata: che senso trarre dai segni che ci circondano?  È esemplare in questo senso il paragone fra la crisi della disoccupazione e la storia dei cacciatori di vespe in Inquieto: così come dirà nella dedica finale (per la figlia), l’osservatore dovrà decidere cosa trarre da questi, come altri, parallelismi. L’incapacità registica, espressa direttamente da Gomes, mette addirittura in dubbio ciò che si vede, facendo seriamente traballare lo sguardo. Da questo accorgimento rischiosissimo metaforicamente proviene l’oscillazione fra sogno e realtà, fra costernazione e desiderio di innovazione. Nella prima mezz’ora, il cinema di Gomes (forse escluso Tabu) è già tutto lì.

 

scena

Le mille e una notte - Arabian Nights (2015): scena

 

La natura della narrazione di Scherazade rivela un primo livello di lettura di questo mastodontico film del regista portoghese: ella racconta notte per notte le sue storie, e il percorso è frammentario e vagante, pende fra l’allegorismo più sfrontato, l’affabulazione grottesca, l’umorismo e il documentario. Sono altri segni gettati da Gomes. Intraprendiamo dunque un viaggio con il regista stesso, per comprendere di cosa stiamo parlando. Sempre rovente nei sottotesti (ha senso raccontare?, ha senso raccontare così?, sembra chiederci costantemente), Gomes illude di non essere consapevole della natura semica dell’immagine. Nessun guizzo né estetismo né svolazzo nel suo primo Inquieto: solo, se vogliamo, una scarnificazione del linguaggio cinematografico, una successione di inquadrature fisse o semoventi, e di sguardi sgomenti su colori e luci che non evitano shock visivi e ostentata asincronia (un esempio per tutti, il conto alla rovescia del Capodanno nel terzo episodio, con esplosione musicale subito successiva). Si rivela anche un altro espediente particolarissimo della pseudo-narrazione gomesiana: quello della suspence “invertita”, che nasce e si sviluppa con una concezione temporale molto particolare. Gomes aumenta i tempi morti, crea aspettative ma annulla le attese, tanto che non capiamo mai che qualcosa sta per succedere, anche se sappiamo che deve avvenire, finché quel qualcosa non succede. Con conseguente, costante, sbigottimento da parte nostra. È un modo questo di denudare le certezze temporali dello spettatore, un modo direttamente proporzionale all’inquietudine che Gomes vuole instillare sullo spettatore stesso. E probabilmente questo processo di destrutturazione sensoriale, di annichilimento se vogliamo, parte con l’episodio del Gallo ed implode letteralmente nel primo monologo del Magnifico, che è un campo lungo che si trasforma in primo piano con una zoomata impercettibile, che annebbia gli ambienti e rivendica un’attenzione spontanea, quasi ipnotica.

 

 

Destrutturando la concezione del tempo, Gomes mette in dubbio anche lo spazio, e di conseguenza anche lo spazio tra le persone: Inquieto è l’espressione stessa dell’Indifferenza e dell’incomunicabilità. Il gallo non riesce a comunicare, i dialoghi sono mostrati a distanza, i ricchi arrapati non riescono a discutere linearmente perché parlano lingue diverse, i dialoghi del secondo episodio sono visti da lontano e/o tramite scritte (gli scambi via sms dei ragazzini). Solo i Magnifici, benché immersi in un monologo, sembrano comunicare. In questo clima di ansia perenne, il finale, con preludio funebre (la sirena è forse una delle immagini più forti e belle del film), è quasi un atto liberatorio, con la corsa in acqua. Una possibilità, ancora in nuce, di Cinema resistente, politico, utile ma anche ludico, sognante.

 

scena

Le mille e una notte - Arabian Nights (2015): scena

 

Con Desolato siamo ancora lontani, però, dalla liberazione. Prosegue la ricerca con toni sommessi e ancora più cupi, però più profondamente cinematografici. È probabilmente il più bel episodio dell’epopea gomesiana: in esso si esplora il confronto con il Cinema Contemporaneo. Alcune contemplazioni paesaggistiche sembrano ridiscutere le conclusioni di Assayas in Sils Maria, se non addirittura il rovente linguaggio del montaggio dumontiano: Simao “Senza Trippa” è in fuga da un mondo lontano, impercettibile, distante, noi nemmeno lo percepiamo, ma percepiamo una tensione altra, quella dell’immagine, che è altra, e trascende, tramite il montaggio, la narrazione lineare. Alla fine Simao viene celebrato da tutti: un capovolgimento umoristico, questo, posto non a caso insieme a uno degli episodi più drammatici (e belli) del capolavoro gomesiano, cioè a dire l’incidente del boy-scout. Questa sequenza in particolare è strutturata in modo superbo, e mette in gioco niente poco di meno che il tema dell’invisibile. Simao aveva da solo rivelato la capacità di scomparire e ricomparire nel paesaggio, immerso in una natura inequivocabilmente indifferente, svuotata. Un campo plastico in cui le figure si muovono, scompaiono e riappaiono, con essenzialità quasi bressoniana, dietro gli angoli, nei punti morti, nelle zone d’ombra dei grandangoli. Così quando i boyscout devono camminare sul filo, sopra un piccolo burrone, sembra, grazie al taglio dell’inquadratura, che stiano camminando tranquillamente sulla terra. Per questo quando uno viene “risucchiato” dal basso (in realtà tirato dalla gravità) lo spazio subisce un’ulteriore ridefinizione. Le figure umane cominciano a rivendicare per sé la propria natura fantasmatica, dovuta direttamente alle proprie miserie.

 

 

Il secondo episodio di Desolato si apre con un primo piano fallocentrico (fallo prima coperto, come nel Decameron di Pasolini, poi mostrato) e una sequenza quasi mcqueeniana che si conclude emblematicamente sul sesso della donna: ha appena perso la verginità. Ricollegando questo episodio con quello dei peni eretti di Inquieto, e con il primo, arcadico, segmento di Incantato, Gomes lancia, con numerosi segni, la possibilità di un ritorno all’origine. La stessa messa in discussione di massimi sistemi come spazio e tempo non permettono di escludere un ripiegamento verso l’archetipo; dunque quello del sesso (accennato, raramente gioioso, sebbene nemmeno triste, quasi “svuotato”, come nell’orgia di Simao, puro significante), sesso che è sempre atto raccontato, più che mostrato. Addirittura la ragazza non più vergine chiama la madre per avvertirla del fatto, ma la madre è un giudice che sta per dare inizio a un processo. È questo l’episodio più bello, divertente, sagace e crudele dell’intera trilogia: Le lacrime del giudice. In un teatro greco, il dramma umano esplode in tutta la sua natura assurda e labirintica, come in un’ideale incontro fra Bunuel e Beckett. Spazi svuotati, personaggi presenti/assenti, maschere, recite, teatro dell’assurdo: una sequenza, questa, irraccontabile, profondamente cinematografica, magistrale. Certo, forse l’allegoria più facile, ma anche la più forte e pregnante.

 

 

Tornano le miserie umane e i fantasmi nel terzo episodio di Desolato. Il cane Dixie passa da un padrone all’altro. È una “macchina di amore come di dimenticanza”. È l’episodio più cupo di Arabian Nights, e chiude il secondo episodio. Con stacco quasi traumatico, passiamo invece alle atmosfere di Incantato.

 

La parentesi di Scherazade è l’ideale film gemello dell’incompreso Metamorphoses di Christophe Honoré. La gioia spogliata, apparentemente, della problematicità, è uno sfociare quasi naturale nel favolistico e nel surreale. La narrazione si fa meno logorroica e ricorre alle didascalie, eppure al centro è sempre il linguaggio cinematografico, prima di tutto: è l’episodio in cui Gomes sperimenta di più con le dissolvenze incrociate e addirittura con lo split screen, che dimostra ancora una volta la natura plastica dei suoi luoghi e dei suoi eventi.

 

 

Da un calderone confuso, il film ha ormai preso forma. E il dialogo, splendido, fra Scherazade e il gran visir sulla ruota panoramica dimostra lo scopo ultimo del film, forse fin troppo annunciato, ed esplicitato (era già evidente fin dal primo episodio): il gran visir chiede “Perché si raccontano le storie?” e Scherazade risponde “Per sopravvivere”. In risposta alla malinconia di un mondo a pezzi, a quello “Stato portoghese evidentemente disinteressato alla giustizia sociale”, Gomes racconta, non importa cosa, ma racconta, narra, mostra. Riporta alla radice più istintiva (archetipica!) lo scopo dell’immagine. E lo fa senza ripiegarsi nel Postmoderno, riuscendo a trovare un equilibrio perfetto – il compromesso definitivo – fra anelito alla morte e speranza di rinascita. Il lunghissimo episodio dei fringuelli ne è la dimostrazione: un’evasione dai problemi umani, che non riesce a fuggire le miserie della vita, anche se sono sempre possibili piccoli, grotteschi, miracoli (lo stranissimo angelo caduto nella rete). Certo, però, se il racconto è salvezza, noi dobbiamo saper ascoltare (i fringuelli cantare come il popolo ribellarsi scendendo in piazza), dobbiamo saper leggere, dobbiamo saper comunicare. Così Arabian Nights diventa elogio alla nuova vita, costruendo dalla polvere un nuovo linguaggio. Che poi in realtà è quello del mito, della favola, del racconto di una volta, un linguaggio che già esisteva: solo che noi ce ne eravamo dimenticati.

 

scena

Le mille e una notte - Arabian Nights (2015): scena

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