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Among the Living

Regia di Alexandre Bustillo, Julien Maury vedi scheda film

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La recensione su Among the Living

di scapigliato
9 stelle

Se À l’interieur (2007) era così parossistico nella sua selvaggia e inguardabile esasperazione della truculenza e del cattivo gusto in chiave politico-autoriale e Leatherface (2017) un’addomesticata versione del classico horror rurale americano, nel mezzo c’è Aux yeux des vivants, ovvero “agli occhi dei vivi”, la matura messa in scena del terrore senza iperboli linguistiche inutili e, allo stesso tempo, senza edulcorazioni tematiche ed estetiche. La coppia di registi francesi Alexandre Bustillo e Julien Maury, nel 2014 firmano il capolavoro dei loro primi dieci anni di incursioni terrorifiche cinematografiche.

Ci sono ovviamente delle piccole falle di sistema, soprattutto arrivati sul finale, ma gliele si possono perdonare innanzitutto per la bellezza visiva del profilmico – messa in scena e iconografia suggestiva – e  della fotografia, ma soprattutto il racconto, la modulazione narrativa, i temi e gli archetipi rispolverati dalla soffitta delle vecchie storie del terrore viste, vissute e interpretate da adolescenti, evocano ricordi, emozioni, sensazioni e proiezioni ataviche di grande suggestione.

Aux yeux des vivants è una concentrazione di miti e tópoi del cinema horror degli anni Settanta e Ottanta tanto cari ai due registi, agli appassionati e alla critica militante del genere. La storia, quella di tre ragazzini che nelle campagne fuori casa si avventurano in un luogo abbandonato e, ahiloro, disturbano il perverso lavoro di un uomo mascherato da pagliaccio che in seguito darà loro la caccia, sembra essere uscita dal miglior Stephen King – e i riferimenti a It (Stephen King, 1986; Tommy Lee Wallace, 1990) e Stand by Me (The Body, Stephen King, 1982; Rob Reiner, 1986) sono evidenti – e inoltre è modulata e ambientata secondo i canoni dell’horror rurale americano in cui ambiente naturale, luoghi abbandonati, strade sterrate, “orchi” deformi e adolescenti a zonzo sono sia dispositivi dell’azione, ma anche simboli di un racconto, quello fiabesco e fantastico del coming of age.

Nl film di Bustillo e Maury ritroviamo il gusto di Tobe Hooper per la ruralità americana e i suoi orrori, da The Texas Chain Saw Massacre (1974) a The Funhouse (1981), passando anche per il quasi dimenticato Eaten Alive (1976). Animalità, isolazione, carnalità, mostruosità, infanzia, adolescenza, gravidanza e famiglia sono non solo i temi che l’horror rurale ha portato da sempre sotto la lente deformante dell’horror espressionista di vocazione critico-sociale, ma sono anche i temi frullati dai due registi francesi in Aux yeux des vivants e che in questi primi dieci anni di attività nel lungometraggio si possono rintracciare soltanto in Leatherface, ovviamente depotenziati.

Anche Wes Craven rivive in questo loro piccolo gioiello nella rappresentazione riuscita della mostruosità dell’orco con la maschera da pagliaccio che ricorda l’iconico Michael Berryman di The Hills Have Eyes (1977), titolo di cui tornano anche gli “occhi” in quello francese e non è un caso, visto che può ben essere la chiave di lettura, o meglio di visione, del film e dell’opera tutta di Bustillo e Maury. John Carpenter invece, riecheggia nell’incipit autunnale, in cui la prima mattanza a cui assistiamo ha per sfondo la notte di Halloween, e nell’ottima sequenza della babysitter che ci regala uno dei momenti migliori del film, compreso l’abbondante seno scoperto che uno dei giovani protagonisti ha la fortuna di vedere, anche se nel momento meno opportuno. Anche gli autori citano se stessi nel loro film con la presenza di Bèatrice Dalle, ovviamente gravida, proprio nell’estremo incipit da poco citato in cui rivive l’insana atmosfera casalinga di À l’interieur.

Se la coppia Bustillo e Maury va colpevolizzata è per l’idea ipercitazionista e derivativa del loro cinema, ma come già detto è il risultato finale che colpisce e che va applaudito. Con Aux yeux des vivants ci troviamo di fronte a una pellicola che ricorda non solo il glorioso cinema degli anni Settanta e Ottanta, sostituito oggi dal patinato horror mainstream, ma anche tutta una cultura pop di riferimento che radica sia nei fumetti, come Tales from the Crypt (1950-1955, EC Comics) e Creepy (1964-1983, Warren Publishing), sia nella produzione televisiva di genere come appunto l’adattamento di Tales from the Crypt (William Gaines, 1989-1996) e Freddy’s Nightmare: A Nightmare on Elm Street: The Series (Wes Craven, 1988-1990) a cui vale la pena aggiungere l’italiano Zio Tibia Horror Show (Pino Pellino, 1989-1990), personaggio iconico dell’epoca, ispirato proprio all’Uncle Creepy della serie della Warren Publishing. Anche i Goosebumps di R. L. Stine (1992-1997) hanno contribuito a riattivare un certo immaginario e certe mostruosità che durante i Novanta iniziavano purtroppo a scricchiolare.

Questi contenitori antologici hanno comunque permesso, in un periodo che può andare dagli anni Sessanta ai Novanta, la creazione di un immaginario horror di riferimento, ormai ben sedimentato e immarcescibile, composto per lo più da esistenti ed eventi facilmente riconoscibili per la loro evocativa archetipicità – cimiteri, case abbandonate, pagliacci assassini, mostri, etc. Inoltre è un immaginario che si fonda su, e si fonde con, il racconto adolescenziale, benché le tematiche all’epoca fossero molto superficiali e poco approfondite rispetto all’attualità. Nei teen drama orrorifici di oggi possiamo invece assistere ad un approfondimento non infantile di tematiche cosiddette young adult, dove sui protagonisti più giovani vengono proiettati i disturbi e le domande del mondo adulto, oltre che trovare una narrazione più esplicita e iconograficamente più consona ai problemi e alle immanenze dell’adolescenza, soprattutto di carattere sessuale, identitario ed esistenziale.

Ciò che colpisce di più di Aux yeux des vivants è il profilmico. Le citazioni sparse qua e là possono anche appesantire la visione dello spettatore più esigente, però sicuramente tessono una rete di rimandi iconografici e culturali, quindi identitari, non solo con un genere, l’horror, e il sottogenere di riferimento, lo slasher o il teen horror o l’horror rurale, ma anche con una poetica ed un’estetica sì di genere, ma che nella storia del cinema è stata di volta in volta anche politica, sociale, ideologica, psicologica. I simboli che incontriamo nelle iconografie del terrore hanno i loro significati. Sono segni che veicolano altro oltre la prima lettura del segno. Così, in Aux yeux des vivants abbiamo tre ragazzi, tre adolescenti, che dopo aver visto qualcosa che non dovevano vedere, vengono cercati a uno a uno dall’assassino mostruoso, ognuno nella propria casa, come il lupo cattivo faceva con i tre porcellini. Il richiamo di una favola non è indifferente all’interno di un horror le cui coordinate, fortunatamente, sono classiche e non postmoderne – citazioni a parte. In più, abbiamo l’immancabile film horror in bianco e nero che viene passato alla tv (The Wasp Woman, Roger Corman, 1959) e che nel film di Bustillo e Maury funziona anche da intelligente trait d’union tra due sequenze. A proposito, le tre sequenze centrali, ossia i tre attacchi del deforme interpretato da Fabien Jegoudez, sono tematizzate: la casa borghese e tradizionale, la casa topaia e la casa borghese di intellettuali e artisti, ognuna con luci, ambienti e moduli narrativi propri. Per non parlare dei manichini, le maschere, la campagna morta e indifferente che tutto fagocita, e soprattutto il set cinematografico abbandonato in cui si rifugia il mostro. Infatti, i tre protagonisti, che scappano da scuola per avventurarsi nella natura, fumando di nascosto sigarette, attraversando laghi in barca,  è proprio attraverso il relitto di una nave di scena che arrivano sul set abbandonato di un vecchio film western – tutti tópoi di passaggi di soglia che richiamano la svolta narrativa che chiamo “tana del bianconiglio”, il pertugio da cui si passa da un mondo all’altro attivando i dispositivi del fantastico, qui dell’horror. Una locations quindi di forte connotazione metacinematografica sicuramente, ma anche metadiscorsiva, tant’è che il “mostro” esce da un set cinematografico, suggerendo quella sovrapposizione di realtà e finzione di cui si ammantano incubi e sogni e che il David Lynch di Twin Peaks: The Return (Lynch/Frost, 2017) ha magistralmente reso nella leggendaria scena finale in cui Laura Palmer torna a casa e scopre che vi vive la reale proprietaria. Questa intrusione dell’orrorifico nella realtà segue i passi di un saggio cinematografico rendendo visibile e reale un mondo che nei film horror è fantasia, finzione, artificio, scenografie in cartapesta.

Ed è proprio in questa perpetuazione di codici rappresentativi e riconoscibili che sopravvive il genere classico del terrore. Le novità figurative e tematiche del nuovo secolo, che hanno proposto estetiche interessanti come il torture porn e il POV – entrambi fortunatamente ridimensionatisi nell’orizzonte produttivo mondiale – non hanno però apportato nuovi immaginari solidi e ricorsivi, né nuove mostruosità figlie dei tempi moderni – ad esclusione di alcune nuove maschere del terrore come Ghostface, Jigsaw, Creeper, l’aussie redneck Mick Taylor e Art the Clown, per non dire del rinato cinema dei killer clown e del sempreverde zombie horror. Questo conferma che l’atavismo dell’archetipo orrorifico è sempre iconograficamente più congeniale e narrativamente più efficace delle attualizzazioni. Queste, che certamente servono per attivare nuove riflessioni e aggiornamenti linguistici sul genere, non possono competere con il fascino stregonesco, la perturbazione fiabesca e la mostruosità orchesca che il classico racconto di paura esercita su ogni essere umano di ogni età e di ogni epoca.

Se proprio si vuole colpevolizzare Bustillo e Maury si può chiamare in causa l’ipercitazionismo dei loro film post-esordio e, nello specifico, la paura di addentrarsi maggiormente nella carne del corpo adolescente ed aver così sprecato la fisicità dei tre giovani ottimi protagonisti – Théo Fernández, Damien Ferdel e soprattutto Zacharie Chasseriaud. Inoltre, la lunga sequenza finale, questa discesa agli inferi dove un traumatizzato padre tornato dalla guerra con tanto di maschera diabolico-caprina cresce nell’abiezione il figlio-mostro, è visivamente affascinante e riuscita, tanto quanto impropriamente articolata e prolungata. Restiamo comunque di fronte ad un ottimo esempio di horror classico con leggeri tocchi di autorialismo contemporaneo. E non è detto che sia un male.

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