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La teoria del tutto

Regia di James Marsh vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La teoria del tutto

di laulilla
5 stelle

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti" cantava Eugenio Montale, in uno dei suoi più celebri “Ossi” (Non chiederci la parola…), negando che il poeta possa dire la complessità del nostro cuore e del nostro agire, o rispondere alle nostre eterne domande sul senso del vivere.

 

I versi montaliani ben si adattano ai misteriosi percorsi dell’intuizione poetica, ma, come sappiamo, la “formula che mondi possa aprirti” ovvero la teoria che spiega il mondo fisico era stata oggetto degli studi di alcuni scienziati che all’inizio del ‘900 svilupparono fra tormenti e lacerazioni (Oppenheimer) le teorie di Einstein.

Anni dopo, all’Università di Cambridge, Stephen Hawking (Eddie Redmayne) – nato nel 1942 e deceduto nel 2018 – grazie alle sue eccezionali doti di intuito e di intelligenza avrebbe elaborato fra il ’65 e il ’70, la teoria in grado di spiegare l’origine e l’evoluzione della vita nell’universo in espansione dopo il big-bang, l’esplosione primigenia dalla quale scaturirono lo spazio e il tempo…

 

Nel film, che è un “biopic”, il racconto degli studi del giovane astrofisico si alterna a quello della drammatica fragilità del suo corpo, dopo l’incidente, che ne avrebbe compromesso per sempre la salute. Aveva poco più di vent'anni quando, dopo accurati esami, gli fu diagnosticata la malattia neurologica degenerativa che gli stava provocando una gravissima paralisi, e che entro due anni lo avrebbe condotto alla morte.
Alla diagnosi attendibile – la paralisi progressiva – non corrispondeva l’esattezza della prognosi, visto che Hawking era ancora vivo, per fortuna, all’uscita del film (come ho detto sarebbe deceduto nel 2018), ciò che gli permise di portare avanti i propri studi, anche con l’aiuto di Jane (Felicity Jones), la giovane che si era innamorata di lui, conosciuta a Cambridge dove studiava letteratura francese e spagnola e che aveva rinunciato a sé e al proprio futuro per sposarlo, assicurandogli le cure e l’assistenza necessaria affinché continuasse a lavorare e a scrivere delle sue scoperte.


Il film, ovviamente, sviluppa i due temi: quello della ricerca scientifica e quello della malattia invalidante del ricercatore in modo, ahimè, vistosamente asimmetrico, privilegiando il secondo tema rispetto al primo, non solo perché è più facile e di maggior effetto, sul piano emotivo, raccontare di un malato che, pur deforme nel corpo e minacciato continuamente di morte, mantiene lucidissima la propria mente, ma soprattutto perché la storia dell’amore fra Stephen e Jane, allietata dalla nascita di tre figli, crea identificazione nel pubblico, lo commuove, e pone anche i problemi delle rinunce e del risentimento di lei, della difficile convivenza, del loro allontanarsi…

 

Il biopic, diventato mélo lacrimoso, com'era prevedibile piacque – non a me – come il successivo diluvio di premi e nomination confermò

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