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Il pretore

Regia di Giulio Base vedi scheda film

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La recensione su Il pretore

di LorCio
3 stelle

Ugo Tognazzi, dove sei? In quale corpo s’è reincarnato il tuo spirito? In quale posto nel mondo hai trovato nuova linfa vitale? E tu, Dino Risi, dove si nasconde la tua anima? In quali uomini eletti hai seminato una piccola parte di te? Come avresti messo in scena una commedia nera scritta come cristo comanda? È più che doveroso chiamare a raccolta i due mostri sacri in occasione di una tarda trasposizione di un best seller del magnifico Piero Chiara, autore che sta riacquistando, nel corso degli anni, un giusto stato di culto anche grazie al bellissimo operato dell’allievo ideale Andrea Vitali. Il pretore, ritorno sul grande schermo dell’ex buona promessa Giulio Base, è la dimostrazione di un cinema oggi impossibile.
 
Rappresenta la disperata ricerca di un ritorno alle origini, o perlomeno di un recupero della grande tradizione della nostra cinematografia, e finisce per essere la celebrazione di un conservatorismo rassicurante, malgrado una storia tutt’altro che rassicurante. Ci si potrebbe girare attorno a lungo, ma la questione è più che semplice: al netto della lodevole e meritoria operazione produttiva, è un film vecchio se non ammuffito. Al di là della simpatica idea del “film di paese”, girato nel paese, interpretato dal paese, vissuto dal paese, si sfocia nella deriva strapaesana, pressappochista, vagamente bozzettistica, macchiettistica e facilona.
 
Nonostante la grande bellezza di un paesaggio in cui trionfa lo splendido specchio del lago in cui si riflette la natura circostante, Base, pur coadiuvato da un buon Fabio Zamarion alla fotografia, non va oltre la cartolina dallo stucchevole sapore retrò, e così pure gli arredamenti e i costumi non sembrano avere vita propria, a metà tra l’illustrazione vintage patinata e il fotoromanzo senz’anima. Proprio il richiamo al fotoromanzo risulta avere una certa pertinenza nel trattare le prestazioni attoriali, tutte indistintamente sopra le righe con il relativo oneroso bagaglio di smorfie, faccette ed espressioni tipiche di quel genere paraletterario, che sottolineano pesantemente ogni azione inficiando sulle tonalità dell’intera storia.
 
Da un lato non dovrebbero sorprendere i caratteri di contorno piatti come disegnucci sulle riviste d’altri tempi, dall'altro è spiacevole rimarcare la biasimevole interpretazione di Francesco Pannofino, mal diretto e lasciato eccessivamente a briglia sciolta. Poco male se il film e Pannofino riprendono un attimo quota negli ultimi venti minuti, un pelo più interessanti per le pur repentine trasformazioni dei personaggi e la piega grottesca della trama: mancano il ritmo, il tono, la scioltezza, la tensione, il gusto, il sapore, manca Ugo, manca Dino.

Cosa cambierei

Voto: 4.

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