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Thanatomorphose

Regia di Éric Falardeau vedi scheda film

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La recensione su Thanatomorphose

di EightAndHalf
5 stelle

Quando si vuole imboccare la strada dell’ambizione, nonostante non si riesca a dissimulare quell’evidente scorza amatoriale che richiama sempre alla memoria la matrice indipendente (e indipendentista) di un piccolo film come Thanatomorphose, che sicuramente dal suo cantuccio ha più buoni propositi che cattive furberie, si deve anche tener conto delle enormi difficoltà di simile sentiero intrapreso, irto com’è di tutti quegli ostacoli che l’occhio avvezzo al cinema di uno spettatore qualunque può notare sotto la marciscente storia della protagonista, giovane artista (un bel po’ underground) maltrattata dal suo uomo (che la usa solo come strumento di appagamento sessuale e  nient’altro) e che comincia lentamente a decomporsi, come se il suo corpo fosse morto ma la sua anima continuasse a vivere dentro quella poca carne rimasta e non divorata dalle larve disgustose che la ricoprono, sembianze più sinestetiche e richiamanti al fetore che il film vorrebbe destare anche nell’olfatto dello spettatore che invece non riesce ad andare oltre certe piccole imperfezioni di script, dall’ostinazione verso il non voler chiamare un’ambulanza (anche da parte di un altro personaggio maschile, che vorrebbe portare la donna in ospedale ma non gli viene in mente il 118) alla mancata visita di un vicino di casa scocciatore che prima fa capolino se la protagonista fa un poco di casino con gli amici ma poi quando la puzza dovrebbe essere diventata nauseabonda ed esagerata non si fa vivo neanche per scherzo, benché per Falardeau avrebbe potuto essere un altro pezzo di macelleria da far squartare alla sua giovane protagonista che, com’è ovvio, lentamente impazzisce, non tanto perché non riesce a spiegarsi il motivo della sua metamorfosi (che di kafkiano non ha nulla, nonostante tutto il film sia ambientato all’interno di un appartamento), ma perché vede – come Falardeau – sul proprio corpo le conseguenze del maltrattamento quasi cannibalico da parte prima di un uomo che non la ama e la considera alla pari di un oggetto, e poi di un altro uomo che sembra darle speranze di amore ma poi non riesce a salvarla, né dalla sua vita né dal disgusto della sua nuova condizione, che non può non ricordare qualche idea cronenberghiana anche solo vista la nazionalità (canadese) del regista, autore già di due piccoli cortometraggi, La petite mort, poco significativo, e Crépuscule, sicuramente più interessante tentativo di corto d’animazione su un Adamo e una Eva che contaminano un mondo fiabesco di creature angeliche e non certo benevolenti, ulteriore riflessione, questa, sul rapporto fra i sessi, più feroce e disincantato di quanto potrebbe sembrare, in quanto nel mondo di Falardeau l’amore non esiste, esistono i corpi, le ossa, gli organi genitali, forme falliche come coltelli o vaginali come un’enorme fessura sul soffitto, un mondo insomma che cerca l’originalità e il genuino shock da fornire allo spettatore ma  che non riesce neanche a disgustare troppo, facendo quasi sorridere quando divide il suo film in capitoli (con titoletti che ricordano sfacciatamente l’estetica dell’ultimo von Trier) nonostante il tono serioso di tutta la pellicola, decisamente lenta, noiosa, ridondante, desiderosa di darsi un tono dichiarandosi film di corpi e non di messaggi, ma tradita da una breve sequenza onirica in cui uno strano medico prende pezzi dal corpo della protagonista e li dà da mangiare ai due uomini (protagonisti, o meglio, antagonisti), che diventano così emblema didascalico di cattiveria e disumanità, disinteresse e crudeltà, le vittime sacrificali di un film che insomma osa meno di quanto sembri e riesce ad essere quasi sottilmente piagnucoloso e vittimistico, senza le osservazioni argute di un Dans ma peau di Marina De Van e senza le ambigue contraddizioni delle pellicole cronenberghiane: solo un esperimento mal riuscito, di cui possono essere apprezzate solo le intenzioni.

 

scena

Thanatomorphose (2012): scena

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