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Anni felici

Regia di Daniele Luchetti vedi scheda film

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La recensione su Anni felici

di LorCio
8 stelle

La prendiamo alla lontana, giusto così. La bellezza è un concetto universalmente soggettivo. I detti popolari affermano proprio questo: è bello ciò che piace. Con il problema della bellezza si sono misurati maestri della storia dell’arte, pensatori e filosofi, scrittori, musicisti. Insomma chiunque si sia ritrovato ad avere a che fare con l’arte in tutte le sue forme, col pensiero, con la parola, ma anche con l’azione, si è interrogato sull’indecifrabilità della bellezza, sul perseguimento e sulla persecuzione della bellezza, sul suo mistero, sulla sua perfezione ideale. Perché prenderla così alla larga? Perché a misurarsi con la bellezza, nello schermo ormai piccolo di un mezzo che non potrà più essere grande se non nella memoria degli amatori, è Daniele Luchetti che, conscio dell’enormità della questione, l’affronta con la leggerezza della narrativa e si affida all’immagine per schivare le paure dei suoi personaggi, i quali a loro modo manifestano l’esigenza, se non l’ambizione, della bellezza in quanto realizzazione della perfezione. La vita potrebbe essere perfetta per Guido, se la critica gli riconoscesse l’agognato status di artista d’avanguardia; per Serena, se il marito, che pur l’ama follemente, non la tradisse sessualmente con la prima modella che passa; e per Dario, se quei genitori un po’ scombinati si accorgessero di lui.

 

La sovrastruttura ideale del film di Luchetti si ricollega proprio al concetto della bellezza ideale e dall’immagine, mai così importante nel suo cinema, emerge la necessità di esprimerla con completezza: la bellezza dei corpi avvinti dall’amore totalizzante, della carne imbrattata di colore come reazione alla convenzione, dei volti nervosi ma limpidi, della natura incontaminata, della felicità di servirsi della tecnica per ottenere qualcosa di inequivocabilmente bello per sé. L’abbiamo fatta un po’ tanto filosofica senza averne le competenze, ma all’origine del film più importante ed ambizioso di Luchetti c’è un liberatorio grumo di sensazioni e di passioni che si incontra necessariamente con la ricerca intima e forse sofferta dei fantasmi del passato. Come raramente è accaduto negli ultimi anni, la sceneggiatura (scritta con gli abituali collaboratori Stefano Rulli e Sandro Petraglia) non si preoccupa di spiegare i perché delle cose e di imbrigliare il racconto in rimarchi evitabili: lascia libertà d’azione ai suoi personaggi incoerenti ed infantili, evita la morale della favola e la chiusura consolatoria del cerchio, non ha paura di risultare ingenua o prevedibile.

 

Una grande storia d’amore con troppo amore e profuso male e a volte infelicemente, abitata da anime fondamentalmente insoddisfatte che cercano di completarsi a vicenda: a suo modo, è anche una storia universale, perché malgrado il preciso contesto storico e le inevitabili implicazioni (finalmente niente canzoni d’antan, niente anacronismi, niente spiegoni: solo aria del tempo, qualche elemento simpatico come i manifesti sul referendum per l’abrogazione del divorzio, la Linea di Cavandoli, il bollo auto e il fondamentale Super8) sa parlare ad un pubblico sovrannazionale e non si guarda l’ombelico pur essendo spudoratamente autobiografico o autoreferenziale (la voce off del regista è platealmente una dichiarazione poetica, ma la mediazione romanzesca e le ovvie e indispensabili alterazioni della realtà non ne fanno assolutamente un’autobiografia).

 

Essenziale e temerario al contempo, nostalgico senza essere melenso, è un punto d’arrivo nella carriera di Luchetti (nonché terzo capitolo di un’ideale trilogia sulla famiglia disfunzionale con Mio fratello è figlio unico e La nostra vita) e, pur non essendo il suo capolavoro, ha la tenerezza e la libertà di essere ciò che vuole, osserva con lucidità e filma con una naturalezza che è studiata e ragionata (“il mio personale addio alla pellicola” l’ha definito il regista, poiché utilizza tutti i formati possibili). Più che Anni felici, titolo provocatori (titolo di lavorazione: Storia mitologica della mia famiglia, più ampolloso ma assai intrigante ed impegnativo), sono anni di cambiamento e di liberazione. Ma il cambiamento e la liberazione sono sempre fonti di felicità? Meravigliose interpretazioni di uno smisurato Kim Rossi Stuart e di una coraggiosa Micaela Ramazzotti, ma anche i ragazzini meritano un sacco di elogi così come l’insolita incursione di Martina Gedeck e i contributi esimi di Benedetta Buccellato e Pia Engleberth. Un cinema antico che ha ancora diritto di cittadinanza, un bel film perché “è bello e basta”. Per me, naturalmente.

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