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American Animal

Regia di Matt D'Elia vedi scheda film

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La recensione su American Animal

di OGM
6 stelle

Un malato terminale recita il folle monologo dell’apocalisse. Che, in questo caso, coincide con il compimento dell’evoluzione della nostra specie: al giorno d’oggi possediamo tutte le risorse e gli strumenti possibili, e dunque non ci resta che tornare allo stadio animale, per goderci, semplicemente, i traguardi raggiunti dalle generazioni precedenti. Jimmy si rende conto che la sua vita si sta per concludere, tra manciate di pillole da ingurgitare ed espettorazioni di sangue, e, per farsene una ragione, può immaginare che la stessa storia dell’umanità, nel suo complesso, sia giunta al punto culminante, in cui tutto il dicibile è stato detto e tutto il fattibile è stato fatto. Gli obiettivi si sono esauriti, e dunque a nulla vale affannarsi, come il suo amico e coinquilino James, che gli rivela di essere stato accettato come tirocinante presso una ditta. Jimmy crede che il lavoro sia inutile, che sia perfino un tradimento della missione biologica che, in questa fase, spetta all’uomo: esistere, pensare, sognare, soddisfare gli istinti primitivi, e suggellare così la propria posizione di padrone incontrastato dell’universo. Jimmy parla a raffica, con gli occhi spiritati e la voce rabbiosa, esprimendo una disperazione che si fa deliro d’onnipotenza, mania di grandezza, mentre accosta idealmente la propria immagine a quella di famosi attori hollywoodiani, da John Wayne a Robert De Niro. La sua ribellione è diretta contro l’ordinarietà, ossia l’anonimo schematismo sancito dalle regole non scritte ma comunemente accettate, che pongono irragionevoli limiti all’espressione individuale. Sfrenatezza significa essere se stessi fino in fondo: un impegno che  può anche prevedere l’interpretazione di una parte studiata ad hoc, come quella dell’esaltato o del provocatore, se ciò serve ad infrangere le barriere della normalità per proclamare la propria indipendenza dalle convenzioni, ivi comprese quelle linguistiche. Jimmy è un inventore di parole, appartenenti ad un idioma sconosciuto, che utilizza come marchio del proprio esclusivo rapporto col mondo: un mondo apparentemente rovesciato, ma in fondo rigorosamente dritto, nel quale la ragione diventa estremismo della logica, nuda e cruda, capace di demolire, a colpi di stringenti deduzioni, ogni argomentazione basata sulla prassi dell’è giusto così o del così non si fa. Questo film, che vede l’esordiente Matt D’Elia nella triplice veste di sceneggiatore, regista ed attore principale, ha la forma di una pièce teatrale in cui pazzia e dialettica si intrecciano vorticosamente nell’ambiente claustrofobico, ma psichedelico, dell’appartamento nel quale Jimmy e James  e due ospiti femminili improvvisano, tra luci al neon e le luminarie di un finto Natale, una festa che assomiglia tanto a un trip. Nella figura del protagonista, una cupa voluttà di autodistruzione  sfuma  in una insaziabile fame di emozioni, e intanto i dialoghi sono come correnti che, dovendo aggirare quello scoglio di autoritaria bizzarria,  vengono dirottati verso il largo, lungo la scia serpeggiante di un nonsense che, nonostante gli acuti drammatici, vandalizza irrimediabilmente la letterarietà del discorso. Una bestialità divertita, ed ammantata di intellettualismo, fa capolino tra l’irruente manifestazione di un dolore così tragico da sembrare una selvaggia forma di euforia. Questo American Animal è la classica opera fuori dai canoni, contraddistinta da un’originale irriverenza che graffia lo sguardo con un catastrofismo allucinato da genio incompreso. Un prodotto  volutamente grezzo, ma forse un po’ troppo spigoloso e discontinuo, e tale da far affiorare, tra gli strappi del tessuto cinematografico, i profili taglienti e irregolari delle sue ambizioni mancate.  

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