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Mekong Hotel

Regia di Apichatpong Weerasethakul vedi scheda film

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La recensione su Mekong Hotel

di OGM
8 stelle

Un hotel, in quanto luogo di incontro e di passaggio, è una finestra affacciata sul mondo. Anche su quello invisibile ed arcano di Apichatpong Weerasethakul, addormentato nel mistero, nel quale si confondono il sonno e la morte, il sogno e la leggenda. L’amore, ancora una volta, come già in Blissfully Yours e in Tropical Malady, nasce per caso e guarda verso l’infinito. Così è per Phon e Tong, i due giovani che si conoscono e che continuano a frequentarsi stando fermi davanti alla balaustra di una terrazza, con gli occhi rivolti al fiume Mekong. La madre di lei è un pob, un fantasma fluviale che si ciba delle viscere di uomini ed animali. È la finzione di un film i cui personaggi non sono poi molto diversi dagli attori che li interpretano, uomini e donne che, anche nella realtà, sono immersi in un’atmosfera di attesa ed incertezza: sta per arrivare un’ondata di piena, e gli effetti dell’imminente inondazione sono difficili da prevedere. La natura è sempre in agguato, con i suoi insondabili enigmi. L’uomo rimane piccolo, di fronte alla sua forza invincibile, alla quale può rispondere solo col silenzio interiore, e forse con la musica. Il suono di una chitarra solitaria, in sottofondo, accompagna la lentezza di una storia di cui non si conosce l’inizio, e la cui fine è una questione ancora aperta. Intanto, come ne Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, il crepuscolo è il momento della rievocazione nostalgica di un’epoca ormai tramontata. Di ciò che allora era vivo e si poteva amare, e adesso è andato definitivamente perduto. Una donna, da ragazza, era stata educata al valore della patria, che doveva essere disposta a difendere con le armi. L’avevano addestrata proprio come un soldato, insegnandole a sparare. La magia dell’altrove si impossessa di tutti, nel racconto fantastico come nella vita vera, mentre il tempo scorre con un ritmo irregolare: a tratti sembra non passare mai, a tratti subisce improvvise accelerazioni, che, in maniera brusca e traumatica, separano l’individuo dal suo io di ieri. Tale è la logica che governa il ciclo delle reincarnazioni, sulla quale l’essere umano non può intervenire. La sua identità sfuma, sul confine tra la terra e l’acqua, che è la sede ancestrale della metamorfosi. Il cambiamento è inevitabile e irreversibile, ed è causa di un immenso dolore. Lo stabilisce la leggenda, una verità remota e paradossale, che però sa adattarsi perfettamente alle forme del reale. Basta una poesia letta a fior di labbra, per invocarla, e farla cadere su di sé come un velo di lacrime, la scia di un pianto universale. L’incanto, all’apparenza, è solo la superficie vellutata delle cose; ma, nella sostanza, è l’essudato di un’anima  potente e inafferrabile, che fa emergere le emozioni dal buio, a testimoniare la presenza di una profondità popolata di ignote creature. Il Mekong nasce in un lungo imprecisato dell’Asia centrale, da montagne che sono distanti migliaia di chilometri. Dal suo fondale a volte affiorano i tronchi di alberi, con i rami e le radici protesi verso il cielo. Ciò che si vede viene da lontano, e non si da dove. Rimanere a contemplarlo equivale a rimandare la sua fine, continuando a coltivare la sua indeterminatezza, che ne fa il potenziale inizio di tante immaginarie storie di rinascita.

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