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Tulpa - Perdizioni mortali

Regia di Federico Zampaglione vedi scheda film

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La recensione su Tulpa - Perdizioni mortali

di FilmTv Rivista
6 stelle

Esiste un Tulpa di giorno, in cui Lisa è una donna d’affari tutta d’un pezzo che nuota da squalo in mezzo agli squali. Dipendente di una multinazionale per merito e fascino, è corteggiata dal boss dell’azienda e invidiata dalle colleghe tra una riunione e un turno doppio. Nella versione da ufficio dell’opera gli interpreti stentano, rasentando l’amatorialità recitativa e doppiandosi come peggio non si potrebbe. Un umorismo involontario pervade la messa in scena dell’universo aziendale, tra siparietti con bronci da soap e goffi tentativi di excursus su condizione economica e mercato azionario. Poi si fa notte e un ben diverso Tulpa esce allo scoperto. Al calar delle tenebre Lisa entra in un club privato (il Tulpa, appunto), cercando catarsi e trovandola in orge sfrenate, contorsionismi sessuali e rituali erotici sul modello martiniano di Tutti i colori del buio. Il thriller all’italiana si impossessa del quadro e le Sei donne per l’assassino con cui Bava inaugurò il genere tornano a morire di fronte allo spettatore. Guanti neri, impermeabile e volto coperto. Luci al neon, acidità cromatica e città deserta, trasfigurata. Arti (e membri) mozzati, sadiche torture, ettolitri di sangue sgorganti da carotidi e polsi. E poi sesso etero, saffico, sadomaso. Zampaglione estremizza la storia del genere anni 60 e 70 (dal killer di Bava alle deorbitazioni di Fulci, dal volto di donna sfigurato dall’acqua bollente come in Profondo rosso alle sette di La corta notte delle bambole di vetro di Lado) misurandosi con una materia ben più spinosa e derivativa di quella maneggiata nel precedente Shadow. Il rischio di buttare il film nel cestino c’è tutto, indotto dagli improponibili (e frequenti, e lunghissimi) segmenti diurni e da una generale sopravvalutazione del prodotto medio della tradizione thriller nostrana. Tuttavia, fosse uscito nel 1972 Tulpa sarebbe stato in linea con gli standard di un filone prolifico, a volte illuminato, molto più spesso scadente. Certo, l’industriale di Michele Placido è fuori da ogni credibilità, il feticcio Nuot Arquint (maniaco in Shadow, qui laido ed esoterico padrone del club privé) è già macchietta, il sassofono di Papetti è fuori contesto. Ma il lavoro d’artigianato sul martirio dei corpi e l’erotismo conturbante di Claudia Gerini (in Zampaglione) lasciano il segno, riportandoci per un solo attimo in una sala buia di quei favolosi anni 70.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 26 del 2013

Autore: Claudio Bartolini

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